venerdì 25 gennaio 2013

La vita non è uno scoop

Il tempo. Per il momento si tratta dell'unico sostantivo di genere maschile che detiene di potere di farmi ragionare. Siamo messi bene.
Un altro venerdì è arrivato, posso perciò scrivere con un certo distacco - ma non troppo - di quello che è accaduto una settimana fa.
Una settimana fa, dunque, Settegiorni ha pubblicato un articolo di cronaca nera. Uno dei tanti che il settimanale locale usa come ariete per le vendite. Un articolo perfetto, per questo scopo: la morte di un ragazzo, a Magenta. Una vita spezzata a 24 anni, in stazione. Per volontà sua o no, ma continuo a ripetere, e lo ripeterò sempre, che non è questo il punto. Un ragazzo, uno scout, che non c'è più. Un dolore che ha espresso, sabato scorso, un'intera città.
L'incidente era avvenuto in settimana. I giornalisti locali sono accorsi sul luogo della tragedia, con reazioni decisamente contrastanti. L'autrice del primissimo articolo sull'edizione online del suddetto Settegiorni ha subito mostrato uno spiccato interesse per il particolare macabro, dimenticando tutto il resto.
Una versione splatter che è stata pubblicata nel giro di poche ore, firmata con una sigla. Nessun rispetto per la vita del ragazzo, per il dolore dei genitori, per quello di chi gli ha vissuto accanto. Una voglia di...sbalordire che ha oltrepassato tutto: il comune senso del pudore, il codice etico, la stessa ricostruzione dei fatti. Già: perchè l'iniziale sconosciuto aveva poi un nome e un'età, le certezze erano supposizioni e viceversa. Una pessima pagina coperta da un comodo anonimato e dal lessico zoppicante.
Si sono levate aspre critiche, e anche io ci ho messo del mio, lo scrivo senza problemi. Perchè 9 anni di servizio di informazione sul territorio accanto ad altri giornalisti che, come me e spesso impegnati più a lungo di me, hanno letto con orrore, mi hanno insegnato tante cose. Primo, che quando non è possibile raccontare i fatti, questi vanno riportati così come sono, senza influenzare il lettore. Secondo, che il sensazionalismo non paga mai. Terzo, il confronto con gli altri giornalisti spesso aiuta a mantenere l'equilibrio, così come la ricerca dei protagonisti delle vicende. Lasciare che la notizia, per quanto piccola, parli da sè, e non noi per essa.
Il polverone c'è stato, quindi. E in edicola, venerdì scorso, l'articolo è uscito in versione normalizzata. Via i particolari raccapriccianti, che il direttore di testata ha tenuto solo per il titolone di prima pagina: il tripudio del disgusto. Temo che il confronto tra "professionisti", in questo caso, sia del tutto superfluo.

martedì 22 gennaio 2013

Ma che rimborsi

Ieri sera ho visto Chiara, in stazione. Dopo una giornata incredibile, uno stop senza motivo in metropolitana, un ritardo di 20 minuti, una corsa in superficie per un annuncio fittizio e una seconda corsa per tornare giù nel passante e prendere un treno strapieno. Ma tant'è.
Ci siamo viste e lei mi ha parlato subito della radio. Ha mandato un curriculum, voleva sapere come funziona. Le ho detto che non ci lavoro più, in radio. E quando le ho raccontato che il taglio del personale è arrivato prima della regolarizzazione mi ha guardato come mi guardano più o meno tutti: delusione, e un pizzico di sospetto (d'altronde la crisi c'è ma è sempre lontana, degli altri). Solo gli amici non mi guardano così. Gli amici si incazzano e basta.
Chiara sta finendo gli ultimi esami all'università. Ma si guarda intorno. Il giorno prima era stata ad un colloquio oceanico: 45 persone. Per 4 posti di lavoro, mi è parso di capire. Mi correggo, per degli stage.
Mi ha raccontato che le hanno proposto 3 mesi. Senza rimborso. Senza possibilità di proseguire, magari con una formula differente. 3 mesi, gratis et amore, e tanti saluti. Lei si è alzata e i saluti li ha porti lei, pure con una stretta di mano. Grazie per la vergognosa offerta, voleva dire quella mano.
Chiara mi ha detto che le aziende possono decidere se non pagare o dare un rimborso spese, nel primo anno post laurea. Dopo l'anniversario, invece, sono costrette a prevedere almeno qualcosa. Credo di aver fatto io, quell'espressione a metà strada tra delusione e incredulità. Identica a quelle che vedo io nei miei confronti.
Comoda, la cosiddetta laurea breve. Si personalizza il percorso, se si vuole si finisce prima. Salvo poi rimanere un anno senza stipendio. Bell'insegnamento, dal mondo del lavoro.

venerdì 18 gennaio 2013

Con tutto il rammarico

Ieri sera ho preso la metropolitana alle 22.30.
E ho odiato fin da subito il procuratore di Bergamo.
Perchè in me si è insinuato, come un filo di fumo lento e solitario, il sentimento dell'inquietudine.
Ho attraversato diametralmente la città sferica in poco meno di un'ora, aspettando il primo treno per 11 minuti e la coincidenza per altri 8. Come per ribadire, ancora una volta, quanto Milano sia pronta per l'Expo.
A Lambrate il sinuoso sentimento mi ha aggredito alle spalle. Eccoli lì, tutti i luoghi comuni della paura. Un uomo straniero seduto di fianco a me che olezzava d'aglio. Due ragazzi arabi in cappotto che ridevano poco più in là. Una piccola donna di mezza età sicura e invisibile. E io. Che ho serrato le gambe sotto la borsa del computer, enorme (a chiamarlo laptop gli si fa un favore ma ieri sera andava benissimo, nonostante la spalla lussata e la tracolla che ha cigolato ad ogni passo), ho tirato fuori il mio libro e ci ho piantato gli occhi, sperando di dare una spinta a quei 11 minuti di attesa.
Con tutto il rammarico, ha detto il procuratore di Bergamo, donne mai sole alla sera. E io ero sola. Single e sola. In gonna, per giunta. Nè troppo lunga, nè troppo corta, ma in jeans. Una gonna, ma come mi sarà venuto in mente? Per fortuna il piumino è a tre quarti. Ma le calze erano nere. Nero, che colore provocante. Calze di microfibra, ma se fossero state gialle, forse, sarebbe stato meglio. E vogliamo parlare degli stivali? 6 cm di tacco. Imperdonabile. Poi sono arrivati tre ragazzi e una ragazza. Ridevano, erano rilassanti. E sono saliti con me. La metropolitana era affollata, ma io avevo gli occhi inchiodati sul mio libro, il racconto di una donna rumena a tempi del periodo del terrore nazista. Il procuratore di Bergamo, con tutto il suo rammarico, avrebbe sorriso di soddisfazione.
Ma a Cadorna, negli 8 minuti di attesa, ho alzato gli occhi e mi sono accorta delle persone. Un buon numero di persone intente nella conclusione della loro serata, in modi diversi. Ho alzato gli occhi e l'ho vista. Una ragazza sul binario di fronte. Elegante cappotto color ghiaccio, guanti fino al gomito, gonna e stivali neri. E calze di pizzo. Di pizzo! La ragazza ha tirato fuori un libro, ha spostato il segnalibro e ha niziato a leggere. Ho cominciato a provare della soddisfazione io, questa volta. Per tutto il rammarico del procuratore di Bergamo. E poi davanti la lei è passata un'altra ragazza, con un bel tacco 12. Ma aveva il fidanzato per mano. Forse il contrito procuratore di Bergamo mi avrebbe detto che lei non vale, sono le donne sole, il problema.
Sono arrivata a Bonola quasi alle 23.30. Il sinuoso fumo della paura si era dissolto, anche se, grattando via il ghiaccio dalla mia auto completamente ricoperta, mi sono per un attimo guardata le spalle.
Sì, Milano è ancora molto lontana dall'essere una città europea. Ma i suoi cittadini la sognano e la desiderano fortemente più adulta, più emancipata. E poi c'è il procuratore di Bergamo, che più di tutti ha offeso i suoi, di cittadini. Con tutto il rammarico, si meriterebbe un bel vaffanculo.

mercoledì 16 gennaio 2013

Falena

Lei mi dice. Mi vesto sempre così, di domenica. Lavo e stiro e rimetto. Sono comoda, mi piace, e mi tolgo un pensiero.
Togliere i pensieri. Che figura meravigliosa. Levarli, come foglie secche. Come fili d'erbaccia. Asciugarli via, come gocce di pioggia dagli occhiali. E vedere di colpo tutto più chiaro, smettere di guardare soltanto. Sentire un peso che si solleva. Raddrizzare il collo e andare avanti. Con un mezzo sorriso.
Togliere i pensieri in un'altra giornata in cui sembra che questa testa non riesca a contenerli tutti. Troppi. Li sento urtarsi tra di loro all'interno della scatola cranica. Si urtano come se fossero fatti di mille angoli. Si urtano come se fossero metallo, vetro, unghie sulla lavagna. Fanno rumore. Si scheggiano. Stridono.
E pesano. Sono nella testa ma si sentono nello stomaco. Alla bocca dello stomaco. Nauseano.
Bloccano. In un letto che è più rifugio di quel che dovrebbe. Anche se è scomodo e provoca mal di schiena. Un letto che andrebbe cambiato. Tra le lenzuola che avvolgono. A tratti non scaldano, a tratti lo fanno troppo. Avvolgono, ma stritolano. Forse anche quelle sono da cambiare.
Sono pensieri insolubili. Soluzioni, quelle che cerco. Soluzioni di cui non conosco la formula chimica, non so dove trovarla. Ci sono? Ma certo, dicono tutti. Povera cretina, ma certo! Ma dove è finita la tua intelligenza? Sotto i pensieri, dovrei urlare. E' soffocata, c'è troppo rumore. E' sopraffatta. E' inutile. Avrei dovuto continuare a far ginnastica artistica, più palestra. Correre, tutte le mattine. Altro che intelligenza, mica si vede, quella.
Togliere i pensieri per capirci qualcosa. Dei pensieri, e di quello che c'è intorno. Perchè la soluzione è là fuori e quindi vedere quello che c'è intorno potrebbe essere utile. Ragionamento cretino adatto alla cretina. Talmente banale che ti chiedi come hai fatto a non pensarci prima. Ma forse quel pensiero non ce l'ha fatta, ad entrare nella testa. Tutti i posti sono occupati da vetro e metallo spigoloso e scheggiato. Forse quel pensiero semplice ha atteso. Si è ferito. Se ne è andato.
Lei mi dice. Sole e Luna. Due facce della stessa medaglia.
Domani mi sveglio e i pensieri si sono dissolti nella soluzione magica. O la sognerò, se non mi sveglierò ancora di colpo. E pensare che è tutto irrecuperabile, ormai. Come la cellulite.

sabato 12 gennaio 2013

Burana, per niente burina

E poi c'è la nonna Carmina. Carmina, proprio così. Nè Carmen, nè Carmela. Perchè in dialetto calabrese ha quel sapore in più. Quindi Carmina, all'anagrafe.
E se, leggendo qualche post fa, avete pensato "però, tosta la nonna Rosa!" ecco: è perchè ancora non parlato di lei. Una Rosa d'acciaio l'una, un sergente inflessibile l'altra. Donne al centro di invisibili sistemi matriarcali in cui il potere era apparentemente - e solo quello - in mano ai mariti. Che in realtà non avevano un soldo in tasca, che organizzavano il lavoro nei campi in linea con il ciclo delle stagioni e, dall'alba al tramonto, secondo impegni annuali ben stabiliti. Nonno Domenico, marito di Rosa, aveva in più uno spiccato senso sociale, mentre Vincenzo no, era un solitario che amava ill suo lavoro e che lo insegnava a chiunque ne avesse interesse, con passione. Meglio di qualsiasi ambientalista di ogni tempo.
Era la Carmina a detenere il potere oltre che economico anche sociale, in questo caso.
La Carmina che, quando nacqui io, era là, in Calabria. Ma che non ci rimase con l'avvicinarsi del mio battesimo. "Vado a Milano", disse un pomeriggio al nonno, senza alcun preavviso, senza nessuna spiegazione. In un fazzolettone mise un cetriolo, una forma di pecorino e un cambio e prese la littorina, e poi il treno, arrivando in Stazione Centrale al mattino successivo. Una metropolitana fino a Mario Pagano, dove sapeva ci fosse il capolinea degli autobus per la periferia, che nel frattempo era stato spostato in piazzale Lotto. Una richiesta d'aiuto (ovviamente in calabrese) ad una ragazza, il pullmann fino a Sedriano e, dato che era sabato, un giro al mercato del paese, prima di arrivare con tutta calma a casa dei miei e suonare per il pranzo.
In tutti questi anni ho cercato di immaginarmi la faccia di papà, quando aprì la porta. Quella donna piccola coi capelli grigi lunghissimi ma portati sempre intrecciati intorno al capo non poteva certo mancare al battesimo di quella nipotina piena di capelli neri, nata solo un mese prima, 33 anni fa. Quella nipotina che avrebbe dovuto portare il suo nome, ma che non ce l'ha, grazie alla grande intelligenza dei giovani genitori. La nonna non se la prese più di tanto, a dir la verità. O dissimulò con grande maestria, forse. Serbina, mi avrebbe chiamato, storpiando il mio nome come faceva puntualmente e immancabilmente con il resto del nipotame, lasciando subito intendere a tutti che ero lì, sicura e approvata, nella schiera.
Ma di "carmina" ne scrissi poi, ne scrivo sempre. E lei doveva già saperlo fin dall'inizio.

giovedì 10 gennaio 2013

Canzone della vita quotidiana

Uscire al mattino, tornare la sera.
Una sveglia che suona sempre alla stessa ora, la doccia, un velo di crema per non sentirla fredda, il tuffo nell'armadio, il caffè, le chiavi, la strada fino alla stazione, il treno.
E' il riassunto mattutino di questa settimana. Ed è sorprendente.
Perchè, invece di sentirmi finalmente NEL mondo, è come se fossi totalmente fuori da esso. Come quell'alieno che il mio docente universitario di psicologia sociale citava spesso per far capire come le convenzioni, a lui osservatore del genere umano, potrebbero essere inconcepibili, il più delle volte.
Mi sento un alieno. Non che in questi 8 anni post laurea non ci siano state pause di vita normale. C'è stato un anno, in particolare, così. Un anno che non ricordo con particolare piacere, e che quindi cerco in tutti i modi di dimenticare. Per non associare quelle sensazioni a nessun'altra, nè ora, nè mai.
Un alieno che si inserisce nella vita normale come un ex carcerato che ritorna alla società civile. Da che pianeta sono arrivata, per aver dimenticato tutto? Per provare fatica come se si trattasse di tre ore di fila di spinning?In che cella ero rinchiusa?
Ah, i vantaggi della vita di coppia. Aver qualcuno da aspettare, o che ti aspetti, aiuta a scandire lo spazio e il tempo. Ah, i vantaggi di aver un figlio. La gioia e l'impegno e i bisogni di un piccino non ti fanno porre nemmeno la questione. Non ti fanno nemmerno pensare, agli alieni, a meno che tu sia appassionato di fantascienza. Magari alle convenzioni, quelle sì. Che coincidono con la buona educazione della prole, il più delle volte.
Lo so. Settimana prossima andrà meglio. Grazieadio. Ma, nell'attesa di tranquillizzarmi, o rompere nuovamente lo stato delle cose, forse sarebbe meglio troncare subito l'ascolto di Guccini.

mercoledì 2 gennaio 2013

Il nome della Rosa

Nonna Rosa è qui per le feste.
E' arrivata in aereo accompagnata da un baldo giovane che l'ha scortata in carrozzella fino alla porta scorrevole degli arrivi, si è alzata, si è sistemata la borsetta sul braccio e via, a casa della zia.
Io e la Manu l'abbiamo vista due sere dopo, alla vigilia di Natale. Siamo arrivate a Fara Novarese per la cena (per cui è stato cucinato il Mar Adriatico) e dopo i saluti l'abbiamo cercata, ma non c'era, nel salone. Era nell'appartamento di fianco, quello di Pietro e Titina, i genitori dello zio, a friggere. L'iron grandma era immersa in una nuvola di fumo davanti ad una padella alta con 4 dita di olio bollente a far cader dentro, a goccia, cucchiaiate di pastella con o senza acciughe. Poi si è cambiata il maglione, un'aggiustatina alla piega, la cena e la messa. Prega anche per me, le ho detto. E lei si è messa a ridere.
Non senza aver fatto ridere tutti noi, prima. Raccontandoci del suo ultimo spasimante (che nel frattempo è morto, ha detto in una pausa seria) che l'ha fermata in piazza, mentre lei tornava a casa dopo la spesa, per dirle di averla sognata, quella notte, e per chiederle se voleva andare a casa sua. Non ci pensate nemmeno, ha risposto lei subito, divincolandosi dall'anziano signore che ha pure tentato di baciarla. Non ci provate più, ha minacciato, girando per qualche tempo alla larga dalla zona, fino a che sono arrivate le scuse del focoso spasimante. Che forza: a 80 anni ci racconta, facendoci sbellicare fino alle lacrime, di pulsioni e desideri che non hanno età. Con una freschezza meravigliosa. Degna del suo nome