lunedì 26 ottobre 2020

Post n#500. Continuare a scrivere, per coerenza.

 Venerdì ho concentrato diverse commissioni e le ho messe in fila lungo la giornata. Mi sono accorta che, più del traffico, il parcheggio, la pioggia di questa stagione anfibia la maggiore difficoltà avuta è stata la combinazione letale mascherina+occhiali da vista. Peggio di mister Magoo, l'appannamento che di solito durava dieci secondi entrando dall'esterno in un locale, per l'intera giornata non mi ha dato tregua. Una destabilizzazione che quasi ha minato l'equilibrio, camminando nella fredda umidità della provincia milanese, molto sgradevole. Soluzione: sollevare gli occhiali e vedere tutto con la miopia che appanna in un altro modo; tirare fuori il naso per pochi secondi. 

Soluzioni che, se fai un mestiere in cui non puoi toccarti il viso mai con le mani, diventano impossibili.
Ho pensato a ci, in questo momento è in prima fila e deve rimanere del tutto asettico, e mi è venuta in mente Stefania. Lei, che ha studiato da infermiera (per dirla un po' all'antica) dopo aver cambiato completamente vita (la sua pelle precedente è raccontata qui, in uno dei 499 post che precedono questo), ha lavorato in rianimazione, vivendo sulla sua pelle il massacro dei turni che non vengono rispettati perchè l'aziendalizzazione degli ospedali lombardi ragiona con la logica del profitto. Ha poi scelto una struttura multiambulatoriale, riunendo le capacità di marketing della vita precedente con quella corrente. Ma poi la vita (della mamma) ha deciso per lei e si è trovata a essere caregiver, spiegando in un libro memorabile cosa significa prendersi cura davvero di una persona malata. E poi? Pronta per una nuova avventura, di nuovo la vita (di tutti) ha deciso che no, doveva tornare in trincea. Coi turni, e tutto. 

Sto cercando di scrivere un articolo con tutti gli elementi che Stefania mi ha fornito. Spero venga pubblicato, non tanto per dimostrare a me stessa qualcosa, perchè non ho più niente da dirmi; ma per fare chiarezza in un mare di legno, come ormai ho definito questo modo di starsi vicini tenendosi ben distanti, che ha le tinte scure della paura. Questo terrore che ci fa odiare tutti, indistintamente, a giro, con una ferocia da mostro marino, probabilmente in tek.

Sto raccogliendo le idee e spero di non tralasciare nessun particolare, perchè è proprio l'errore di oggi: ingigantire un dettaglio distorcendo la verità. 500 volte una promessa. 

domenica 18 ottobre 2020

Libera nos a Buongiornissimo

 Mamma, hai visto la foto che ti ho mandato?
"No, scusa, stamattina mi sono arrivati un sacco di uazzap e mi sono persa il tuo, non li ho nemmeno aperti tutti". 

Il copione si ripete, identico, ogni giorno. 
Il complemento oggetto della mia frase varia da foto a comunicazione, frivola ma anche importante. Un appuntamento, qualcosa che non si può dire in una chiamata in orari di lavoro, ma che si può guardare in un momento di pausa. Il complemento oggetto riguarda quello che dovrebbe contenere, di norma, un messaggio.

Il problema non è più un'incapacità a gestire il cellulare: anche i nostri genitori hanno imparato tutto bene. Ora lo cambiano, anche, senza pensare che quelle funzioni non le ritroveranno più nel modello successivo, risparmiandoci inutili e spassosissime scene di panico. Imparando loro stesso dai nipoti. In questo caso il mio, Federico, non ha nemmeno compiuto due anni e sa guidare nonna e nonno meglio di qualsiasi altro insegnante iroso (io e mia sorella). 

Il problema, sempre più grande, è l'enorme quantità di messaggi che ogni singolo giorno, con picchi altissimi nelle feste comandate, le ricorrenze, le feste e gli onomastici, invadono il tranquillo e inconsapevole medium genitoriale: tutti fatti di immagini di buongiorno, buon pranzo, buona digestione, buon pomeriggio, buona sera, sogni belli, a domani. Ti penso, un angelo per te, una preghiera e tutti i santi vi furono graditi, baci abbracci carezze caste, orsacchiotti pulcini leprotti. Animazioni di emozioni. 

Tutto però senza alcuno sentimento. 
Perchè il carico di affetto è solo effetto di scena. Un'enorme onda di distrazione che non è legata a nessun pensiero reale, se non la copia di mille riassunti, incollati senza nemmeno guadare cosa si sta inviando, senza orario, a dispetto di tutte le regole di buon comportamento. Una valanga di apparenza posticcia come il colorante dello zucchero filato, con lo stesso indice indigesto, se ingoiato nella stessa quantità industriale.

Ciao, ti penso, ti mando un bacio. E' davvero così complicato digitare pochi tasti sulla tastiera? 
O chiamare, in serata, anche solo per un saluto? Quanta carta da lettere impallidirebbe al solo pensiero di questa invasione di ultracorpi! 
Che fare, senza urtare la bulimia dell'inoltra? 

Ciao, ti ringrazio per questo pensiero animato. Ma preferisco un messaggio tuo, anche un semplice ciao, quando hai voglia di farmi un saluto. Lasciami un messaggio solo quando lo senti davvero, o chiamami! Non ti offendere, ma ho bisogno di riavere questo servizio...a mio servizio!   
Sinceramente, vediamoci per un caffè. E senza avatar.

venerdì 16 ottobre 2020

Rimedi allo sconforto

C'è un gruppo che seguo su Facebook che amo più di altri. Io le chiamo "professioniste della comunicazione", ma questa mia definizione è riduttiva. Si tratta di donne che fanno moltissime attività differenti, sono piccole imprenditrice o precarie o artiste o artigiane. Ecco, sì: sono, siamo, tutte artigiane di un destino che in qualche modo vogliamo rendere migliore. Nostro. Bellissimo.

Oggi una di loro ha condiviso un momento di sconforto e ha chiesto, per superarlo, di condividere con lei un momento in cui ci siamo sentite vive, ci siamo sentite nel posto giusto, al momento giusto, al massimo delle potenzialità. Sono andata oltre, ma poi sono tornata a quella richiesta e ho scritto. 

C'è stato un giorno in cui sono approdata in una radio nazionale. Prima, c'era stata una lunga gavetta in agenzia giornalistica di meteo e traffico, a dire ovvietà che tutti gli automobilisti alla guida sanno, come "ci sono code tra Pero e Cormano, tra Roncobilaccio e Barberino di Mugello, sulla Tangenziale Est di Roma"; poi un praticantato, un'altra agenzia.

Ma in quel primo giorno in radio Aldo, il mio direttore, mi presentò ai colleghi e poi disse: tieni, questo è il notiziario. Vai in onda con Ester. Sai quando tutto ti si schiarisce e ti si annebbia allo stesso modo? Mi sentivo cosí, mentre scendevamo le scale e percorrevamo il corridoio che portava allo studio della diretta. Un corridoio rosso, la porta a vetro pesante con la cerniera imbottita, la scrivania con due microfoni davanti, le cuffie, i cursori. Il tecnico che mi dice "stai tranquilla, ci penso io, tu guardami e basta". E il cuore? Il cuore aveva preso posto tra le corde vocali, me lo sentivo pulsare in gola come se dovesse uscire da lí.

Ho pensato a quale momento scrivere ma ho scelto questo. Che poi, riflettendoci meglio, l'emozione non ha reso quel momento limpido; meno di altri, forse. Ci sono i colori, ci sono i luoghi e ci sono le persone, però. E poi ci sono stati tanti passi, mossi in un ambiente nuovo e con strumenti nuovi. Anche ora, che faccio tutt'altro, mi trovo ancora a sondare un ambiente nuovo e imparare a utilizzare nuovi programmi. Sarà per questo che il ricordo di quel giorno è emerso così, in mezzo alla ricchezza dei momenti belli. 

Anche io, come tutti, ho momenti di sconforto, ma cerco di accorgermi di tutto il bello che mi accade, proprio per comprendere meglio cosa significa vivere il qui e ora. E oggi, ad esempio, ho fatto un massaggio, una visita specialistica e ho cucinato per me, due volte. E ho scritto questo post a Maddalena dal mio balcone inondato di sole pomeridiano, con una tazza di the sul tavolino intarsiato di azzurri. E anche oggi ho imparato qualcosa. 

Ti stringo da qui, amica virtuale, perché conosco quelle giornate.
Continua a lottare.

mercoledì 14 ottobre 2020

Fogliettone romano


Tutto ciò che riguarda la conquista del mestiere è legato a Roma, dalla prima prova scritta all'Hotel Ergife, quella dell'esame di abilitazione giornalistica. Quella volta venne Salvatore a tirarmi giù letteralmente dal treno: mi ero rotta il braccio solo una settimana prima e ancora faceva molto male, e nel 2008 era ancora possibile attendere sulla pensilina, accanto al binario. Fu lui a portarmi allo scritto, fu sempre lui ad accompagnarmi in auto sul lungotevere, a fianco alla Sinagoga, per il colloquio orale, con un'auto blu che sapeva di muschio perchè non teneva troppo l'umidità. Lo scorso fine settimana, invece, per il concorso dei Giornalisti Rai ribattezzato Concorsone, è stata la volta del fratello, Domenico. Indicazioni precise al millimetro in stazione, e viaggio verso la nuova Fiera di Roma stavolta con una Golf nuovissima, taxi in servizio solo per me. 

Sarà per questo, per le colazioni e i pranzi abbondanti di zia, la sveglia affacciata sul cortile del Testaccio, le risate e le lunghe passeggiate nel cuore di questa città con le gambe e gli occhi accompagnati da chi la ama nel profondo, sarà per questi fratelli che mi scortano verso le prove che mi hanno fatto tremare le gambe. Sarà per questa sfumatura famigliare che, nonostante il braccio rotto allora e il Covid oggi, queste prove si affrontano con il miglior stato d'animo possibile. Con una sincerità che nessun luogo comune potrebbe davvero indagare.

La pandemia non ha rimandato oltre questo concorso che aspettavamo tutti da almeno un anno e mezzo e per il quale ci siamo presentati il 2.770. Anzi: ci ha diluito in due ingressi e tre orari, ci ha fatto camminare per 4 km in percorsi protetti e sicuri, misurando temperature, consegnando autocertificazioni e raggiungendo i nostri banchi ben isolati all'interno più padiglioni senza mai avvicinare nessuno. Cento domande in 100 minuti che hanno subito messo in chiaro quanta abilità dovessimo mettere in campo.

E poi via, peripatetici nell'uscita e consapevolmente socratici della nostra ignoranza, a ripercorrere la metà di quei chilometri in uscita. Per me, Domenico ad attendermi, verso il frugalissimo pranzo della zia e quella casa piena di foto e un fine settimana di noi, famiglia vasta cui le distanze non azzerano mai la confidenza. Un bagno nel Tevere che toglie tutte le sovrastrutture e mi restituisce come sono, come sono anche loro. Una gara difficile da assegnare tra sguardo e palato. 

Non sono stata ammessa allo step successivo. E' giusto: non ho dimostrato abbastanza sapienza, e il gruppo su Facebook creato dai partecipanti restituisce la stessa fotografia. Ma quello che ho portato a casa, sul viaggio in treno protetto da mascherina e distanziamento, è stato molto di più della soddisfazione di aver avuto il privilegio di testarmi. Il privilegio, vero, è di sapere che posso contare su un luogo del cuore. Un luogo in cui i sogni sono ben coccolati, in attesa della prossima occasione. 

domenica 4 ottobre 2020

Perchè lasciar correre non si può più fare

Quando mia sorella partorì venne a trovarla una persona. 
Lei, in quel momento, era a fare una visita: il decorso stava andando bene, si trattava di uno dei controlli per poi tirare le fila delle dimissioni. Il bimbo era con lei. 

Questa persona arrivò di gran passo, entrò nella corsia di destra, varcò la soglia della stanza, trovò il letto vuoto e in un baleno uscì nell'atrio tra i reparti. A quel punto mi vide: ero nella sala d'aspetto, in attesa. Appena mi scorse si nascose, si voltò e se ne andò, con la stessa imperiosità con cui era arrivata. 

Si attaccò al telefono e chiamò Manuela una, cinque, sette volte. Di fila. Più tardi, quando con calma la puerpera la richiamò, le disse che era venuta. 
Ma c'era solo la balena di tua sorella. 


La vita di ognuno è imprevedibile. E' difficile conoscere a fondo i cambiamenti che ciascuno di noi compie continuamente, per cause esterne e del tutto interne. Niente è dato una volta per tutte. 
Alcuni di questi cambiamenti sono visibili. Per alcune persone sono chili in più, o chili in meno. 
Ad esempio. 

Eppure, nonostante il cambiamento sia parte di tutti e tutti cerchino dei modi per assecondarli, arginarli o contrastarli, alcuni di questi aspetti sono strumentalizzati al solo scopo di colpire l'altro. O per evitare di vedere il quadro generale. 

Ho scelto un esempio personale, ma potrei anche scrivere di una cara amica che continua a perdere peso per una serie di motivi, e che è additata allo stesso modo, il cui aspetto è l'incipit di ogni discorso. E' lo stesso, perchè l'esempio, di solito, dovrebbe far scattare un meccanismo di immedesimazione che dovrebbe spegnere quella piccola cattiveria gratuita che, tra l'altro, dipinge davvero brutti ghigni sul viso e che crea rughe perfide. 

Il punto è che non vogliamo più capire. 
E allora, forse, agli stupidi va detto. Che lo sono.