giovedì 27 gennaio 2011

Grazie, R101

Ci casco sempre. Finisco con l'affezionarmi troppo alle persone, ovunque vada.
E' per questo che fa così male. E fa male sul serio, è un dolore che sento davvero.
Ma non solo.
Tante volte mi è capitato di ricominciare da zero. Ripartire. E ogni volta mi sembra di non aver mosso un passo in avanti. Il che, naturalmente, è falso. Ma c'è quel dolore che non mi fa ragionare, che mi fa sbagliare strada e mi fa perdere l'orientamento, che mi chiude le prospettive.
Ci sono le certezze cui aggrapparsi, nel primo momento di sconforto.
Quella di aver fatto bene perchè, per nove mesi, ho avuto il privilegio di conoscere e lavorare al fianco di persone splendide. Che mi hanno insegnato molto, giorno per giorno. Che mi hanno dato consigli, hanno fatto osservazioni, mi hanno responsabilizzato. E accanto a loro, altre persone che hanno apprezzato questo percorso. Tutte queste persone non hanno, per me, significato qualcosa solo professionalmente. C'è un legame, diverso per ognuno di loro, ma non per questo superficiale, che si è allacciato, si è formato, ha trasformato questa esperienza in un percorso pieno di umanità. Di affetto, di stima.
Ci casco sempre, insomma. Ecco la causa del dolore.
E poi c'è un'altra cosa.
Per la prima volta ho potuto dimostrare un valore. Un valore che fino a questo momento era rimasto parzialmente soffocato da altro.
In un secondo momento c'è il passo indietro e la prospettiva, come se mi guardassi da due metri di distanza. Ho passato nove mesi entusiasmanti. Arrivata e buttata in onda, le superpapere, la pazienza del capo e la simpatia delle colleghe, l'estate, la mia centralinista preferita. Tutte queste persone che stanno organizzando una festa a sorpresa per domani sera, e tra loro chi parla con me con il magone.
Da lì il panorama è bellissimo, senza ironia. Se mi giro e guardo là fuori, invece, un po' meno. Ma si riparte, stavolta più forti di prima.

venerdì 21 gennaio 2011

Allegria paterna

Non bisogna mai perdere il senso dell'umorismo.
A casa mia è il papà l'uomo delle freddure. Il principe dalla battuta. Quella stupida, immediata, che spesso fa ridere solo lui e che fa alzare alle altre 3 gli occhi al cielo. Le migliori esibizioni, però, quando il pubblico è più vasto. Ex fidanzati, amici, zii e cugini vari ormai lo sanno bene. Nessuno è sfuggito all'umorismo del Rocco.
Eppure sono fantastiche. Io ho sempre riso più di quelli assuefatti. Perchè lui è recidivo, e non molla mai. Non perde mai l'occasione di rilevare il lato comico di qualsiasi cosa (comico come lo intende lui). Perchè è un super bonaccione, e a volte, anche un po' pasticcione. Come me. E quindi non posso non amare il mio cabarettista casalingo.
Da poco ha subìto un piccolo intervento al braccio. Niente di grave, ha tolto solo una cisti. Adesso ha il polso fasciato e steccato. Lo ha chiamato sua sorella, la zia, per sapere come stava. Bene, ha detto; il polso è ancora attaccato al braccio. E giù a ridere. Ok, ammetto che scritta così è quasi triste (e lo è, effettivamente), ma al momento l'ho trovato esilarante. E anche la zia, dall'altra parte del telefono.
Poi ci sono i pasticci. Come quello di rimanere impantanati nel campo, con il furgone del lavoro, per aver portato della legna da aggiungere al falò di Sant'Antonio di lunedì. E chiamare la Manu che, pazientemente, lo ha agganciato nel modo giusto (e non come faceva lui) e lo ha trainato fuori.
Adorabile.

giovedì 20 gennaio 2011

Fuochi

Faceva freddissimo, lunedì. C'era la nebbia. Era lunedì, e solo questo avrebbe dovuto bastare.
Ma era Sant'Antonio, e qui da noi vuol dire falò. Non uno solo, ma tanti, perchè a Santo Stefano siamo tanto bravi a dividerci e a farci dispetto l'uno con l'altro, magari bruciando quello degli altri in anticipo.
Fa niente. Noi ci siamo sempre. Ci scriviamo il nostro tam tam, ci tiriamo fuori di casa a vicenda, passandoci a prendere, definendo orari, insultandoci, venendo a cena. "Non fare la figa di legno" è diventato universale e quasi unisex.
E alla fine eccoci lì. Piccoli yeti nelle giacche a vento tirate fino alle guance, sciarpe-guanti-cappelli, con il vin brulè in mano e il lato rivolto al fuoco incandescente e quello non esposto ghiacciato, come fossimo piccoli pianeti troppo vicini al loro Sole. A guardarci negli occhi, spesso unici parti libere da indumenti, e parlare tra nuvolette di fiato. Salutare quegli sparuti che non si vedono mai e chiacchierare, maledicendo i bambini che nel fuoco buttano i loro raudi, dimenticando, forse, che lo abbiamo fatto anche noi.
Poi salta su il Ranza, che ha fatto il limoncello e vuole farcelo assaggiare. E allora via, in una dozzina, a casa sua. Per continuare, con braccia e visi e mani più libere, quel rito della condivisione che ci piace tanto, seduti o appoggiati al bordo di un divano.
Quel rito che si chiama amicizia.

martedì 18 gennaio 2011

Elemosine

Passiamo la vita cercando di sentirci sempre degni di un qualcosa. Degni di un certo andamento scolastico, degni del voto del diploma, degni della vita universitaria, così diversa da quella a cui eravamo abituati prima. Degni del lavoro, di cui pretendiamo uno stipendio degno. E quando non c'è, degni di attenzione.
Su tutto, degni di amore. Di quello che non devi sempre elemosinare, di quello che non devi rubare a nessun altro, di quello che a questa dignità aggiunge un'essenza nuova e sconvolgente: il suo essere inaspettato e totale.
E' una dignità che non è sempre facile mantenere, però. Perchè il lavoro, spesso, non è come lo vorresti. E anche quando lo è, è precario. E quando non lo è, una maternità potrebbe rovinarne l'equilibrio. Ma lo preservi, questo equilibrio, lo curi e lo riconquisti, se è necessario. E se non è più possibile farlo, vai a ricercarlo altrove, perchè probabilmente non è più dignitoso restare lì.
Una dignità che si pretende, insomma, ma che si deve anche dimostrare. Con onestà e sincerità, con trasparenza. Nel lavoro, è vero, ma soprattutto negli affetti. Bisogna essere degni di essere amati, prima di tutto. Senza però perdere di vista proprio lei, la dignità. Senza ridursi a tappetino, senza passare sopra a cose importanti, senza preferire il silenzio, senza rinunciare a combattere. Senza sacrificarla, insomma, in nome dell'equilibrio che però, a quel punto, si è già persi da un pezzo. Si è già lì, nella rete del nostro circo, a fissare la corda tesa sopra di noi ancora senza renderci conto di quello che è successo.
Forse la paura di restare soli è troppo grande, a volte. Ma se ci si volta, nella rete, non c'è nessun altro accanto. Rinunciando a lottare, l'altro lo abbiamo perso da un po'.

venerdì 14 gennaio 2011

Questi cugini milanisti!

-Bello il tuo micino, come lo hai chiamato?
-Paolino
-Paolino????
-Come Maldini
-Oddio..
-Perchè "oddio"?
-Il mio si chiama Ciccio.
-E allora?
-Come Colonnese.

Ecco. Lo avevo conosciuto da poco. Ci avevo parlato innumerevoli volte al telefono, per lavoro. Per mesi, regolarmente. Poi una sera aveva invitato me e degli amici in un locale, in cui lavorava come dj. Aveva una voce bellissima, era simpatico, e quindi me lo figuravo bruttissimo.
Quella sera ci siamo andati in gruppo, siamo entrati, e dopo un po' mi son decisa a cercarlo per un saluto. C'erano due persone dietro la consolle. Uno era grasso e brutto. Mi sono arrampicata alla parte esterna e ho urlato il suo nome. Si è girato l'altro che non avevo neanche considerato. Un figo pauroso. Che si è messo a ridere e mi ha detto: sei proprio un cartone animato.
Ma anche lui, a chiamare un gatto Paolo, non è da meno, no?

domenica 9 gennaio 2011

Quando dico: sbalordiscimi...non così!

Un sms, dopo 8 mesi, per dirle, sostanzialmente, che la storia è finita.
Un messaggio sul cellulare. Due giorni prima della fine dell'anno.
Basti questo. Anche perchè, intorno, di "giustificazione", di "supporto" alla causa, non c'è nulla.
Ci sono degli enormi vantaggi ad aver superato i trenta, anche in questi casi. Di solito non è la prima tranvata che arriva in mezzo agli occhi. Di solito si perde l'equilibrio, il mondo crolla ma solo per un momento, perchè la consapevolezza di averci investito molto e bene prende subito il sopravvento. Di solito si trovano buoni metodi per tirarsene fuori senza ammazzarsi.
Mi chiedo però se tutto vale, a questo punto. Cosa manca? La pazienza, la cura per l'altro, la voglia di crescere insieme, la volontà di costruire qualcosa?
Cosa fa buttare all'aria un rapporto consolidato nei mesi, una condivisione di cose, spazi, di cuore e di affetti? Passi importanti, familiari conosciuti, simboli scambiati?
Quanto pesa la parola "onestà" in amore?

giovedì 6 gennaio 2011

Le parole sono pietre

Eccomi qua, valle del Gulistan, Afghanistan centrale, in testa quello strano copricapo con la penna che per noi alpini è sacro.

Voglio ringraziare a nome mio, ma soprattutto a nome di tutti noi militari in missione, chi ci vuole ascoltare e non ci degna del suo pensiero solo in tristi occasioni come quando il tricolore avvolge quattro alpini morti facendo il loro dovere.

Corrono giorni in cui identità e valori sembrano superati, soffocati da una realtà che ci nega il tempo per pensare a cosa siamo, da dove veniamo, a cosa apparteniamo...

Questi popoli di terre sventurate, dove spadroneggia la corruzione, dove a comandare non sono solo i governanti ma anche ancora i capi clan, questi popoli hanno saputo conservare le loro radici dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case: invano. L'essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. Allora riesci a capire che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi.

Come ogni giorno partiamo per una pattuglia. Avvicinandoci ai nostri mezzi Lince, prima di uscire, sguardi bassi, qualche gesto di rito scaramantico, segni della croce... Nel mezzo blindo, all'interno, non una parola. Solo la radio che ci aggiorna su possibili insurgents avvistati, su possibili zone per imboscate, nient'altro nell'aria... Consapevoli che il suolo afghano è cosparso di ordigni artigianali pronti ad esplodere al passaggio delle sei tonnellate del nostro Lince.

Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l'ultimo, ma non ci pensi. La testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo, finalmente siamo alle porte del villaggio...
Veniamo accolti dai bambini che da dieci diventano venti, trenta, siamo circondati, si portano una mano alla bocca ormai sappiamo cosa vogliono: hanno fame...

Li guardi: sono scalzi, con addosso qualche straccio che a occhio ha già vestito più di qualche fratello o sorella... Dei loro padri e delle loro madri neanche l'ombra, il villaggio, il nostro villaggio, è un via vai di bambini che hanno tutta l'aria di non essere li per giocare...

Non sono li a caso, hanno quattro, cinque anni, i più grandi massimo dieci e con loro un mucchio di sterpaglie. Poi guardi bene, sotto le sterpaglie c'è un asinello, stracarico, porta con sé il raccolto, stanno lavorando... e i fratelli maggiori , si intenda non più che quattordicenni, con un gregge che lascia sbigottiti anche i nostri alpini sardi, gente che di capre e pecore ne sa qualcosa...

Dietro le finestre delle capanne di fango e fieno un adulto ci guarda, dalla barba gli daresti sessanta settanta anni poi scopri che ne ha massimo trenta... Delle donne neanche l'ombra, quelle poche che tardano a rientrare al nostro arrivo al villaggio indossano il burqa integrale: ci saranno quaranta gradi all'ombra...

Quel poco che abbiamo con noi lo lasciamo qui. Ognuno prima di uscire per una pattuglia sa che deve riempire bene le proprie tasche e il mezzo con acqua e viveri: non serviranno certo a noi... Che dicano poi che noi alpini siamo cambiati...

Mi ricordo quando mio nonno mi parlava della guerra: “brutta cosa bocia, beato ti che non te la vedarè mai...” Ed eccomi qua, valle del Gulistan, Afghanistan centrale, in testa quello strano copricapo con la penna che per noi alpini è sacro. Se potessi ascoltarmi, ti direi “visto ,nonno, che te te si sbaià...”

Caporal Maggiore Matteo Miotto
Valle del Gulistan, novembre 2010

lunedì 3 gennaio 2011

Memorabilia

Mi sono resa conto di essere giunta al terzo gennaio di blog. Non lo avrei mai detto. Anche se, in fondo, non scrivo tutti i giorni, anche se, sempre lì vicino al fondo, sono affetta da manie di protagonismo che sfogo scrivendo. Anche se, sinceramente, ci dedico poco tempo e spesso, a posteriori, correggo errori di battitura che danno fastidio principalmente a me stessa e non tollererei per prima.
E' che non rileggo. E' un'abitudine che mi porto dietro da sempre. La massima rottura di balle, per me, era la ricopiatura in bella. Uno spreco di tempo e di carta enorme. Anche le versioni quasi mi piacevano di più con le duemila correzioni di traduzione. E nei temi, mi piaceva un sacco quel sacro furore che ti faceva scrivere due tre pagine di fila senza troppo scegliere termini o mangiarsi la penna dall'incertezza, seguendo il filo logico dei pensieri. C'era dentro un succo vero, c'era dentro tutta la giusta essenza della Carrozza. Quando ripenso ai quei tempi, mi tocco istintivamente l'ultima falange del medio destro. Sul lato sinistro c'era un callo che è sparito. Il segno dello studium, inteso come passione. Il segno di ore faticose segnate su un diario che conteneva, allora, tutto il mondo. Che conteneva tutte le preoccupazioni, tutte le speranze, tutti i sogni. Tutto ben documentato, perchè niente doveva sfuggire, niente doveva essere dimenticato.
Adesso conservo piccole macchine del tempo, fisiche e virtuali.