venerdì 31 agosto 2018

Sette anni senza l'Ispettore

Sui social puoi vedere cosa hai scritto in questa data, gli anni scorsi.
E sette anni avevo scritto che non riesco a dirti addio, Stefano.

Sette anni fa tu morivi, dopo aver preso la legionella in Croazia. La legionella, in Croazia. Una settimana di ricovero, a Zara. O forse meno. Tutto torna indietro come un flash e la mente seleziona solo alcuni elementi, altri li rende opachi, confusi.

C'era stata quella telefonata, di sera. Ero sul lago d'Orta per vedere i fuochi, con gli amici. Ero vicina a Miasino, avevo pensato a tutti voi: eravamo stati lì per il matrimonio della Paola. Quella telefonata, dalla Croazia. Ero per strada, sono rimasta indietro e la strada, che era in pendenza, sembrava deformarsi al suono di quelle frasi a cui non volevo credere. Avvisi tu gli altri? Li chiamo ma mi sembrava, mi sembra ancora uno scherzo, non ci credo, sento il suono falso della mia voce, è la voce di un'altra. Ma le lacrime, quelle, sono state nostre. Le reazioni tutte diverse.
C'è stato il viaggio di Geppo in macchina per venirti a vedere, per guardarti, per essere i nostri occhi lì. Un viaggio lunghissimo per poter stare al tuo fianco pochissimo. Un'ora? Mezz'ora? Dieci minuti? Non lo so più. Ma tu, Ste, lo hai sentito? Non lo so, non lo so più.

E poi sette anni fa è arrivato questo giorno. Hai smesso di soffrire, noi invece eravamo spezzati e completamente suonati. Siamo venute in auto ad una veglia in quattro, ci ha dato fastidio pure la fede che abbiamo trovato in quella chiesa. Siamo poi venuti al funerale, Varese era bloccata da una manifestazione e quando siamo arrivati non siamo riusciti neanche ad entrare, la folla era imponente. E poi sei andato via per la cremazione e noi siamo rimasti lì fuori. Noi che avevamo sempre tante parole, che avevamo parlato così tanto sempre di tutto, siamo rimasti lì senza dirci quasi niente, senza quasi guardarci, con tanta rabbia. Eravamo impotenti e muti, avevamo una gamma di sentimenti diversi e tutti legittimi. E in questi anni l'abbiamo trasformata come meglio abbiamo potuto.

Ma tu ci avevi dato tutto. Anche le parole che non sapevamo più dire. Le avevi scritte e noi le abbiamo lette e rilette. Continuo a pensare in che modo si possa recuperare anche quella mail di gruppo di tiscali, pagherei volentieri un genio del computer per avere quelle email. Ci hai dato tutto senza alcun filtro. Un creatore, un regista. Il pivot delle nostre vite. L'ispettore, perchè fiutavi sempre tutto.

La mente seleziona alcuni elementi e quel dolore è diminuito, anche se lo ricordiamo davvero molto bene. Adesso guardo quelle poche foto che abbiamo, sarebbero state innumerevoli oggi, e noto solo le tue braccia. Noto gli abbracci. Noto come anche fisicamente ci tenevi insieme. Chissà cosa avresti fatto oggi e in questi anni, e non so perchè ma mi scappa un sorriso.
Ci vediamo domenica, Stefano. A Masnago. Ti prometto che sarò quella di sempre.
Non riesco a dirti addio, è vero anche oggi. Anche perchè non ce n'è bisogno.

mercoledì 8 agosto 2018

Il potere magico delle associazioni

Sono cresciuta in un paese a vera misura d'uomo. Ci sono arrivata all'inizio della terza elementare e la mia vita sociale è iniziata, ovviamente, a scuola. Rispetto alla precedente, questa aveva due sezioni per anno, la A e la B, una di fianco all'altra; il mio anno, così come gli altri. Una sola scuola elementare, una sola scuola media. Un oratorio e un campo estivo. Ma mille possibilità di vivere la vita della comunità tutti insieme.

Quando sono arrivata, oltre alla scuola c'era l'oratorio. Ho un vago ricordo di divisione, maschile e femminile, durato pochissimo. Era nel sottotetto dell'asilo, poi si è trasferito in un prefabbricato montato nel cortile, infine in un larghissimo spazio di fianco al campo sportivo, dove è tutt'ora.
Nel frattempo è cresciuta la pro loco, che ha aggiunto molte iniziative a quelle che comunque già c'erano (i concerti della Banda, altra istituzione. Negli anni '80 si esercitava in un palazzo davanti alla Chiesa, sfidando tutte le regole di sicurezza. Era un antro ombroso, coi muri scuri di muffa e di intonaco umido, di muri spessi da corte lombarda e da finestroni a vetro singolo, buio e meraviglioso).

Si organizzavano grandi cose che oggi non ci sono più, come i Giochi della Gioventù e il Palio. I primi si svolgevano tra il campo della scuola e la palestra: tornei di basket, pallavolo, calcio, ma anche giochi come salto in lungo, gare di velocità, gare di abilità, per ogni età, per ogni abilità.
Il Palio era stupendo, perchè coinvolgeva tutti. Non era infrequente entrare nelle case dei vicini per provare i costumi della sfilata e scoprire montagne di scampoli pronti per essere cuciti. La stoffa arrivava dalla tessitura, in pieno paese, e il tema era diverso ogni volta e doveva essere rispettato dalla tre contrade. Sono riuscita a partecipare a due di questi. L'ultimo tema che ricordo era l'America ed ero vestita da indianina.

Poi tutto è fiorito. Sono stati anni densi di cose belle, anni in cui si faceva a gara a organizzare qualcosa e in cui la partecipazione era sempre altissima. Anni in cui l"adesso ti faccio vedere io", la rivalità tra gruppi si traduceva in un enorme beneficio per i cittadini. Anni in cui la competizione era sana. I giochi antichi ripresi, i tiri alla fune, le corse podistiche e ciclistiche, le feste dell'unità e tutte le altre, riempivano i locali (tanti, mai però troppi), la bocciofila, la gelateria, di persone che volevano vedere e vedersi. Io usavo solo ed esclusivamente la bicicletta, a tutte le ore e in qualsiasi condizione climatica.

Sono nate associazioni bellissime. Alcune non sono durate, altre sì. Alcune fanno davvero del bene, come Diamoci una Mano, come l'Avis, come la Caritas, come Le Stelle di Lorenzo. Fanno del bene perchè sono fatte di persone che per moltissimi anni hanno vissuto in un posto intessuto nel profondo di voglia di socialità, che ad un certo punto si sono guardate negli occhi e che hanno iniziato a declinarla in qualcosa di molto utile. Il Colpo di Coda ha parato tutti i colpi tirati ai giovani, l'Albero del Riccio fa del bene ai cuori e ai palati.

Oggi la situazione è diversa. Le persone non hanno più voglia di vedersi. Dopo il lavoro, dopo le preoccupazioni, non esorcizzano più nulla sul marciapiede dell'Acli, sotto la grande magnolia. Non affollano più le strade a Sant'Anna, non c'è più il groviglio di biciclette contro gli alberi sul retro del Capèl de Fer, non c'è più nemmeno il circolo. Io non uso più a bicicletta; a dire il vero, non abito più nemmeno in paese e spesso sfuggo agli incontri.
Oggi, la competizione non ha più nulla di sano. Si preferisce non fare per non sbagliare, perchè il veleno che stilla dalle critiche è tossico, mortale. Le persone feriscono. Le persone colpiscono nel profondo. Anche quelle che sono cresciute con te, in quella magia, sanno bene quali sono i punti deboli di chi abita accanto, e le case non hanno più le porte spalancate pronte per intraprendere insieme nuove avventure. La tessitura ora è uno spazio scarnificato di cui rimangono solo le strutture portanti, pronte ad essere demolite per ospitare altre case, mentre le corti cadono a pezzi. "Ti faccio vedere io" è solo una minaccia. C'è un noi e c'è un voi.

Ma le persone sono le stesse e pure alcune associazioni. Adoro quelle che, in questo mare di barche lontane l'una dall'altra e senza radiotrasmittenti per comunicare, continuano a svolgere i compiti che si sono assegnati, e continuano ad avere stima, continuano ad aiutare, continuano ad avere riconoscimento. Conservano quella magia immune alle cattiverie, che pure continuano a cadere come bombe sganciate senza motivi apparenti. I luoghi sono cambiati, ci sono posti più belli per vedersi, forse più a norma, ma sono tutti meno affollati. E in questo paese, che è sempre stato così unico nei miei anni più belli ma anche per le tre generazioni precedenti, quando i giovani arrivavano per uscire con le ragazze e portarle al cinema di Corbetta, per vedere e farsi vedere, per andare in colonia a Marina di Massa con il prete e non farlo dormire per tutto il soggiorno, è sempre bellissimo vivere. Nonostante la nebbia. Non quella meteorologica: quella non esiste più. Immagino mio nipote crescerci, e desidero per lui un po' della magia che ho avuto io, sperando che i brutti incantesimi non lo tocchino mai.

Io però ho rinunciato.

giovedì 2 agosto 2018

Il Pollaio di Magenta

A Magenta, in via Santa Crescenzia, c'era un cortile. Come tanti. Il portone si apriva sulla strada, tra due ali di palazzo, e lasciava accedere ad un'area quadrata interna, coi palazzi intorno. Un tipico schema lombardo, niente di particolare. Un'architettura nota da secoli, sul modello della villa romana.

Quel cortile collegava la strada ad un grande condominio, che qualcuno aveva soprannominato "il Pollaio". Un palazzo grande e non particolarmente curato. Un palazzo molto affollato.
Il Pollaio era, infatti, il punto di arrivo dei terroni del Sud. Quando i giovani decidevano di emigrare, grazie a una sorta di passaparola e di mutuo soccorso sapevano che, finché non avessero trovato una stabile occupazione, finché non avessero potuto affittare un monolocale in un'altra corte, finché la situazione non si sarebbe anche solo minimamente stabilizzata, potevano stare nel Pollaio.
Arrivavano tutti e dormivano lì, dove trovavano, negli appartamenti, insieme. Il ricambio era sostenuto, anche perchè chi non riusciva a uscire da lì in poco tempo - salvo qualche eccezione - cercava altrove, spostandosi in Lombardia o più a Est. Nessun problema. Arrivavano tutti dalle stesse Regioni. Spesso molti erano parenti, spesso arrivavano dallo stesso paese. Il bagaglio personale di tutti era davvero scarso.

Faceva freddo, nel pollaio. Non c'erano doppi vetri e spesso i serramenti erano in pessimo stato. D'inverno, quello vero, lungo e grigio e con quella nebbia che non mostrava nemmeno il palazzo di fronte, sul lato opposto del quartiere, con quella nebbia che durava tre mesi e con il sole che ricompariva solo in rarissime eccezioni, nel Pollaio si dormiva con il cappotto e con il cappello di lana. In quelle stanze piene di spifferi, a quelle finestre si formavano dei lunghi e sottili ghiaccioli.

Tante persone sono passate di lì. Oggi, l'esistenza del Pollaio mi è stata raccontata con il sorriso. Chi è passato di lì, dormendo con tre maglioni, oggi resta un terrone per alcuni, ma ha cambiato decisamente le proprie condizioni, ha una famiglia, qualcuno ha nipoti. Perchè il Pollaio non esisteva il secolo scorso. Il Pollaio non è un fogliettone ottocentesco. Non è un luogo avvolto nella leggenda. Ma era una realtà di quaranta, trentacinque anni fa.

Oggi, il palazzo che si affaccia sulla strada ospita una serie di ambulatori e il cortile è signorile, con un po' di verde, i sampietrini, pulito, silenzioso. Altri passaggi, altri affollamenti, altre classificazioni, altri freddi e altre speranze passano altrove.