venerdì 28 ottobre 2011

Tutta la vita davanti

Alla ha 20 anni. Si chiama proprio così, Alla. E' ucraina di Kiev. Alta, bella, con gli occhi verdi dal taglio un po' obliquo, lavora come modella per un'agenzia milanese. E' qui da un mese, Alla, ma, a parte l'accento, apprende molto velocemente. Sarà perchè ha avuto subito a che fare con le lingue, visto che parla alla perfezione russo e inglese. Sarà perchè è curiosa e fresca e ama comunicare, come si evince anche dalla sua laurea.
Alla non vive con la madre che, per seguire le sue aspirazioni, si è praticamente dimenticata di lei e ha scelto Torino come domicilio. E' rimasta per un po' in Ucraina, nella capitale, ma poi ha seguito il patrigno qui in Italia.
L'altro giorno ha preso la cartina dell'Europa e mi ha raccontato del suo Paese. Il Governo fa schifo, ha premesso. Sarebbe un posto ricco, altrimenti. C'è il petrolio, c'è il gas, il mare è stupendo, Kiev è bellissima. Hai visto com'è grande? A Nord ci sono delle foreste enormi. Il fiume...io e gli amici lo abbiamo navigato centinaia di volte.

Ucraina è anche Valentina, una donna che conosco ormai da anni. Non arriva ai sessanta, è venuta via di lì più o meno per gli stessi motivi di Alla. Un lavoro stabile che ad un certo punto è scomparso, e lei non ha fatto altro che ricominciare da zero. In Italia sta bene, ma il suo pensiero è tutto per la figlia. 27 anni, divorziata perchè il marito l'ha picchiata, più e più volte, a sangue, anche poco prima di dare alla luce la loro bambina. Sangue spesso pulito dalle piastrelle del bagno, taciuto finchè ha potuto.
Storture di un sistema antico, lei ha tre anni di maternità davanti, ma nessuna voglia di mettere il naso fuori casa, neanche per la spesa. Un marito violento che se n'è andato, una disgrazia che lei vive come se la colpa fosse sua. Forse, allora, un viaggio in Italia, per un po', l'aiuterebbe a ritrovare il sorriso. Alla ne è una dimostrazione. Abbandonata anche lei, ha scoperto che l'amore può avere molte altre forme.

domenica 23 ottobre 2011

La tua vita l'affido al vento

Ti dicono: il tempo cancella tutto. Te lo dicono e te ne convinci: il dolore passerà. Restano solo le cose belle, i ricordi dolci, il sorriso sulle labbra. Resta un segno nell'anima che è come una cicatrice, un po' in rilievo forse, ma che non fa male, se ci passi sopra il dito.
Cazzate.
Sarebbe bello considerare la propria vita come un libro. Capitoli da scrivere, brevi e lunghi, in ordine cronologico. Che quando si chiudono, basta voltare un'altra pagina e ricominciare su una bianca, intonsa, dall'alto verso il basso.
Ma non è così. Non si cancella il passato, non si volta semplicemente pagina. Se così fosse, benchè comodissimo, rivelerebbe un vizio di fondo. Se non senti più dolore significa che il cuore non ce lo hai mai messo. Che hai vissuto fatti e avvenimenti senza che questi ti abbiano davvero coinvolto.
Cazzate, dunque.
Il tempo non cancella nulla, tanto vale smettere di aspettare che lo faccia. Tanto vale vivere a cuore aperto, e piangere, quando si deve, e asciugare quelle lacrime, chiedere aiuto, cercare l'abbraccio di chi ti vuole bene.
Sto leggendo un libro. Si chiama "Tutta la vita". Ieri sera, nel mezzo di una delle mie tempeste, ho letto queste parole, e con queste chiudo questa riflessione che, prima di tutto, scrivo per me stessa, per me sola.

"Ti voglio allegra. Chè insieme c'è da giocare e ridere tanto, e la vita è semplice Alcina mia, si vive o non si vive, e quando si decide che di vivere vale la pena, allora c'è di che andare fino in fondo e cercare sempre di star bene, il meglio che si può. C'è da imparare una cosa sola, e te la insegno io: in anticipo non si deve mai soffrire. Non serve. A soffrire c'è sempre tempo".

giovedì 20 ottobre 2011

Alla Marti

Ho vissuto malissimo i miei anni di liceo, credo di averlo già scritto più e più volte. Li ho vissuti con un senso di inadeguatezza estrema, fino a quasi perdere del tutto la mia voglia di imparare, in una crisi che è culminata al quarto anno. Oggi, guardando indietro, posso solo costatare come abbia sprecato quegli anni che sarebbero potuti essere meravigliosi. Ma sono andati, e non tutto, comunque, è da buttare via...
Poi sono arrivati gli anni universitari, e quel guscio protettivo che mi ero costruita mi ha seguito. Per i primi due sono stata spesso assente, sfuggente, poco di compagnia. Ma poi le cose sono cambiate, merito dei compagni che ho incontrato, di quel gruppo che ho frequentato fino alla fine e oltre, fino ad oggi. Merito di scherzi e sorrisi e ruoli che, finalmente, ci eravamo costruiti e con cui giocavamo, a volte controvoglia, a volte con gusto. Quel gruppo mi ha dato la forza di capire che non potevo mollare, come avevo rischiato di fare una volta. Che potevo finire, insieme a loro, grazie a loro. E così è stato. Quel gruppo mi ha tolto molto di quel senso di inadeguatezza che ogni tanto mi segue ancora, ovunque, come un'ombra; quel gruppo, per primo, ha preso in giro quella piangina che tiro fuori ogni tanto. A volte, punta sul vivo, me la sono presa; a volte no.
Quel gruppo è rimasto, è cresciuto con noi. Non si parla più di ruoli, non ne abbiamo più bisogno, ed è per questo che ci vogliamo così bene.
Perdere uno di noi è stato difficile. Non sono passati due mesi, i perchè restano lì, intatti.
"Non passa nemmeno un giorno senza che ognuno di noi pensi a Stefano. Nemmeno un singolo giorno. Basta una canzone, una foto, un odore". Non c'è niente di più vero, Paola. Non c'è niente di più nostro per te, Marti.

mercoledì 19 ottobre 2011

Dignità

Paula è rumena, ma a prima vista non lo diresti mai. Perchè è alta, con le gambe lunghe, i capelli lisci e castani, gli occhi tra il verde e il castano. A quella prima vista, appunto, diresti che è brasiliana.
Paula se ne sta tutto il giorno a chiedere l'elemosina ad un semaforo, sulla via Lorenteggio, proprio alle porte di Milano, dove c'è il palazzone di Intesa San Paolo o quelli della Vodafone. Se ne sta ferma sul marciapiede e allunga il bicchiere alle auto che attendono il verde per scappare via. Eppure...
Lei allunga il bicchiere, ma cerca anche una parola. Non importa se dentro quel suo salvadanaio di cartone non ci metti niente, o se le dai un'arancia, o i crackers che hai in borsa. Lei vuole parlare. Lei si chiama Paula, e tu? Lei è in Italia da 8 mesi, ha due figli, che sono lontani, a cui spedisce i soldi.
Sabrina è un bel nome, c'è un'altra Sabrina che lavora lì vicino, che passa di lì all'ora di pranzo e scambia con lei due parole. Cosa fai di bello, Sabrina? Perchè sei così stanca?
Paula se ne sta lì la semaforo per 10 ore al giorno. Ci arriva in auto, va via in auto. Parla e ti guarda dritta negli occhi, sotto il suo cappellino con la visiera e il viso abbronzato da quel sole tra i palazzi. Io le farei duemila domande, in quel breve lasso di tempo tra il rosso e la ripartenza. Spesso, quando non mi fermo, abbasso il finestrino e la saluto, almeno. Perchè in quegli occhi vedo una vita imprigionata nel bisogno, nella necessità, nei desideri infranti, quello che non può esserci. In quegli occhi e su quell'ovale perfetto, in una vita così diversa dalla mia, vedo parte di me.
E vedo una dignità che io ho dimenticato e non saprei avere. Che mi colpisce, e che mi affolla la testa di domande.

martedì 18 ottobre 2011

Domenica sarda

Ieri sera sono andata al compleanno del mio cuginetto Matteo. C'erano tutti, come sempre. Sono arrivata un po' più tardi degli altri, come sempre, giusto in tempo per le mie due fette di torta, il prosecco generosamente versato dallo zio (e poi riversato), i bacioni di Gaia, il gol vittoria della Lazio, i regali del festeggiato.

Tutto come sempre, insomma. Se non fosse che arrivavo da Cagliari. E fin qui niente di eccezionale, se non fosse che ci sono andata in giornata. Non so, continuo a stupirmi. Un giorno in Sardegna e una serata come tante, come quelle che passo in famiglia. E'...bellissimo. Una delle miriadi di cose che mi riempie di stupore. Poter, per esempio, seguire per questa trasferta fuori dal...Continente questa squadra di football americano. Questi Under 18 che, in due volte, hanno imparato a conoscermi, così come ho imparato a conoscere loro. Che giocano duro, ma non per far male, ma per placcare e interrompere il gioco altrui e, ancor di più, eseguire alla lettera gli schemi dei coach, difendere senza punto ferire, e offendere per arrivare al touch down e al tiro tra i pali.

Questi ragazzi sono tutti diversi. Bassi e alti, magri e giganti, italiani, un moldavo, un gruppo di sudamericani. Ieri si sono svegliati alle 3 e mezza, alle 4, per questa trasferta. Hanno preparato il riso, che poi hanno mangiato in aeroporto alle 9, qualcuno si è svegliato in ritardo, per qualcun altro è stato il primo volo. Un Ryanair da Orio al Serio delle 7, su cui anche la hostess inglese è stata travolta dalla loro chiassosa simpatia. Poi l'arrivo al campo, che abbiamo scoperto essere di terra battuta. Risultato: 3 punti ad un ginocchio, un altro gonfio come una mela, un gomito decisamente sbucciato e scocciato, perchè in partita niente deve sanguinare.

Una gara vinta con decisione, 48 a 6. Senza cali di attenzione, nonostante la levataccia; con la giusta concentrazione, con il giusto impegno. E alla fine è stata solo festa di una vera squadra. Loro impolverati e sudati, e noi, che di Cagliari abbiamo visto giusto il campo e il sole, i dolci della squadra ospitante e poi di nuovo l'aeroporto. Ragazzi stanchi, ma decisamente felici, accolti dai genitori all'arrivo a Linate, già pronti stasera per un nuovo allenamento. E io sulla via di casa, ops, di Matteo. Già a raccontare di una domenica incredibile, a 700 chilometri da lì, racchiusi tra alba e tramonto.