mercoledì 13 febbraio 2013

Quel che si sa e quel che si dice

Una ragazza uccisa con 22 coltellate.
Di più, la fidanzata. Il giovanissimo oggetto del suo "amore".
Nessuna prova che l'omicida non potesse esser lui, nessuna ombra di dubbio.
Dopo 10 anni di carcere, quest'uomo è libero. Invece di scontare il massimo della pena, che in Italia equivale a 30 anni.
22 coltellate ad una ragazza normale inferte dal figlio di uno degli industriali più famosi d'Italia. Con un coltellino da sushi, si disse. Instabile, bipolare e poi no, e poi sì, e poi no, a convenienza.

Il giornalismo, troppo spesso, resta in bilico tra quello che dice, quello che potrebbe dire, quello che non può rivelare. E' anche forse per questo che spesso non ci si fida dei giornalisti, anche se la categoria della cronaca nera, che più ha a che fare con questo tipo di cautele, è comunque la più rispettata.
Il coltello non era affatto un coltellino da sushi. Era un coltello a lama lunga e robusto, e la ragazza è stata colpita con tale violenza che le ossa delle braccia, con cui lei ha cercato disperatamente di difendersi, erano quasi segate. Ma questo non è mai uscito, dall'autopsia. C'era un'indagine in corso e c'era un potere forte che ha comprato questo piccolo particolare. I giornalisti hanno fonti che sono tenuti a tutelare da segreto professionale, se loro esprimono questo bisogno. Sono fonti che magari lavorano nella Polizia, negli istituti di Medicina Legale, in Procura. Sono fonti attendibili che devono restare off-the-record, si dice. Fonti senza voce cui la moda tutta italiana del qualunquismo e del relativismo non crede più. Meglio allora credere ad un coltellino da sushi, fa più sensazione.
Mentre sarebbe più giusto credere ad una legge uguale per tutti.

sabato 2 febbraio 2013

Restaura(ma)tori

Ieri la Manu ha detto addio a Brescia. Alla sua casa con la finestra sugli scavi romani, in una traversina di via dei Musei, coperta di ciottoli che non amano i tacchi. La casa è stata svuotata dei contenuti di lei ed è tornata bianca, come la tela che si è riportata a casa, appena segnata da sottili tratti di matita.
Siamo uscite, a metà mattina, interrompendo l'impacchettamento, per andare a bere il caffè con le colleghe, pochi metri più in là. Loro sono ancora al lavoro in chiesa per gli ultimi ritocchi. Erano sul sagrato con le loro tute bianche da lavoro imbottite di abiti pesanti, i loro sorrisi e un velo leggero di nostalgia.
Il caffè lo abbiamo bevuto al loro solito posto, davanti ai giornali che parlavano di loro, della presentazione del restauro della sera prima cui ha partecipato tanta parte della città, talmente tanta che le sale previste non sono bastate a contenere tutti. Una pagina intera della sezione di Brescia del Corriere, due paginone del Giornale di Brescia. E, la sera prima, un servizio al Telegiornale Regionale della Lombardia.
Di loro, però, pochissime tracce. Alessandra, la cotitolare della ditta di restauro per cui lavorano le ragazze, ha stretto nella mano, per tutta la serata, la chiave della chiesa, mentre Ferruccio De Bortoli moderava, il presidente di un'importante fondazione si incensava, il cardinale ripeteva l'omelia della mattina e una serie di vecchie impellicciate e vecchi in loden continuavano a cicalarci sopra per rivendicare un posto a sedere. Mentre lei, l'altro titolare e le ragazze guardavano uno schermo lontano, seduti su una scala di pietra accanto alla sala principale, attenti e immobili.
Finchè non ha parlato il direttore dei lavori. Finchè, soprattutto, non ha parlato Philippe Daverio. 45 minuti di lezione, sul barocco, che sarebbero potuti essere ore, per come ne ha parlato. Noi italiani lo siamo un po' tutti, barocchi, ha detto. Lo siamo perchè in ognuno di noi si racchiude tutta la nostra cultura, come una perla ritorta. Restaurare significa ridiscutere le nostre radici. Ricordarci che questi capolavori sono frutto di una parificazione tra artisti. L'architetto, che era anche capomastro, allo stesso livello del marmorino, del carpentiere, del pittore, del falegname. Un'arte nata per motivi politici, ha detto. E io ho pensato: che distanza, da allora. La politica oggi non parla mai di arte, mai. Se non quando dall'Unione arrivano i fondi per Pompei. E il mecenatismo è morto, ridotto al cicaleccio esibizionista in pelliccia e loden. Della parificazione neanche l'ombra, visto che gli artisti veri sono seduti su una scala di pietra fuori dalla sala principale, senza poltrone, di loro neanche il nome, da nessuna parte.
Ma a loro va bene così. Ieri il velo di nostalgia era per due anni conclusi in un lavoro che tutti hanno definito esemplare: mai interrotto, dal consolidamento del tetto al recupero dello splendido pavimento. Due anni di freddo, mani screpolare, unghie rotte, polvere, ginocchia piene di lividi, posizioni difficili da mantenere, ponteggi da salire e scendere, in alcuni casi con tanta paura nel cuore, per colpa di quel terremoto emiliano arrivato forte e chiaro fin lì. Ma due anni di canti, di battute, di risate tra il bisturi, la vaporella, i raschietti, i pennelli e milioni di batuffoli di cotone, per pulire, ricostruire, picchiettare con delicatezza e amore, millimetro per millimetro, gomito a gomito.
Loro, stupite di tanta gente alla presentazione, ma in disparte, senza nessuna rivendicazione. Proiettate al prossimo lavoro, loro che si salutano con un "ci vediamo", perchè sanno di far parte di un piccolo mondo, prezioso, minuzioso, fatto di amorevole attenzione, di amorevole cura.
Quella sera ho apettato fuori Daverio, prima che lui entrasse con la moglie in chiesa e prendesse nuovamente la parola, al centro di quel piccolo santuario ottagonale, azzittendo il cicaleccio ancora una volta. L'ho aspettato con gioia e con il cuore in gola, insieme ad altri ragazzi, ad altre ragazze dell'Accademia delle Belle Arti, come e più che per una rockstar. Mi sono avvicinata e gli ho chiesto un autografo sull'invito. Sa, mia sorella ha contibuito al restauro, gli ho detto. E lui ha firmato e ha aggiunto, con la voce e con la penna: buon lavoro, allora! Già, buon lavoro. Buon lavoro davvero.