giovedì 21 marzo 2019

La sicurezza, prima di tutto

Ho imparato a miei spese a non commentare a caldo le notizie, che invece generano grosse onde tempestose e astiose, sospinte dalle contemporanee strategie di comunicazione delle fonti primarie e gonfiate e sporcate come rifiuti da bufale e venti d'odio indicibile.

Mi astengo da fare un trattato di deontologia, mi astengo anche dal commento giornalistico. Oggi va così, non se ne esce con il buon senso, anche quello soffiato via rabbiosamente.

Mi interessa però il tema della sicurezza. Fingerò di non essere stata mai null'altro che una project manager, quindi affronterò il tema in questo modo.
Nella nostra vita, la conoscenza assume sempre di più un grandissimi rilievo. Ma se nei secoli scorsi si potevano dedicare anni di studio esclusivo, poi assottigliati a periodi della giovinezza, diventati obbligatori per legge, assicurando democraticamente un sapere minimo lasciato alla discrezione di ognuno per quel che riguarda l'ampliamento, da 7, 8 anni, il bombardamento di informazioni è così articolato, multilivello, crossmediale, simultaneo, alto e basso, che quasi il valore della conoscenza si è disperso.

Per valore intendo l'acquisizione di informazioni che depositiamo dentro di noi, li facciamo maturare, li assimiliamo e li prendiamo ad esempio per episodi futuri. Tutto quello che oggi ci si schianta addosso fatica a non scivolare via, a rimanerci dentro. E quando poi dobbiamo acquisire per forza nuove conoscenze, quasi è una fatica insostenibile.

Il tema della sicurezza sul lavoro è lì, gigante. Una grana per ogni project manager che deve iniziare un progetto e mettere in campo nuove risorse, sperando che siano affidabili e non vadano, ancora, a ingrossare le fila dell'assenteismo ingiustificato (un fenomeno ormai senza razza nè età, nè genere), perchè deve organizzare tutto in tempo per essere in regola.
Sabbia nelle mutande per il lavoratore, che spesso cerca tutti gli escamotage per evitare persino la visita medica del datore di lavoro (con giustificazione degne del peggior diario di scuola). E si lamenta dei corsi. Corsi che servono per dare semplici norme di comportamento all'interno di un luogo per evitare cadute, tagli, folgorazioni, investimenti; per dare le giuste alternative in caso di imprevisti, per informare sulla catena di responsabilità, quando intervenire e quando no, chi chiamare per primo. Sabbia nelle mutande.

Spesso, e a lungo, un decreto come l'81/2008 è stato ignorato. E oggi, spiegare perchè si usa un casco protettivo, delle scarpe antinfortunistica, un giubbino identificativo sembra poco utile. Spesso, incontrare i lavoratori in queste occasioni sembra superfluo.
Ho ricevuto chiamate e messaggi vari sul perchè farli, persino se frequentarli preveda un compenso. Perchè è tempo sprecato, una rottura, non vale niente, tanto settimana prossima diserto il lavoro e non avviso.

No. La sicurezza non è prima di tutto, non in questo Paese. Perchè se lo fosse, anche minima, anche essenziale, ovunque e nella stessa misura, contribuirebbe ad attenuare quella irresistibile voglia di fottere il prossimo e additare gli altri, tirandosene fuori.

giovedì 7 marzo 2019

Chiusure umanitarie, aperture umane

Daniel mi ha mandato un curriculum.
E' un ragazzo intelligente, sveglio, propositivo.
Me lo ha mandato due volte, perchè ci ha pensato su e lo ha aggiornato.

Fino a qui, un normale CV europeo.
Se non fosse che Daniel arriva dalla Nigeria, ma prima ha mandato la moglie, che aspettava un bimbo. Fino a qualche mese fa abitava alla Cascina Calderara di Magenta, che poi ha chiuso. Oggi, grazie alla cooperativa "I Girasoli", vive a Milano con Amaka, la moglie, e la piccola Silvia.

L'ho incontrato sabato, brevemente, a causa di Claudia. Ha una bella parlantina, nonostante sia in Italia da meno di un anno. Integra le lacune con locuzioni, oppure passa all'inglese. Un armadio di 35enne che vuole solo lavorare, che ogni giorno, intanto, va a scuola di Italiano.
C'è un problema, però. Il ragazzo ha il permesso di soggiorno in regola, ma non ha i documenti. Non li ha perchè le direttive governative, oltre a chiudere i centri di accoglienza, bloccano l'emissione della carta di identità e dei codici fiscali.

Cercare lavoro senza documenti non è facile e non ci vuole un ripasso di Pirandello per capirlo.
Un lavoro regolare, non in nero. Non nei campi, non vivendo di espedienti, non cercando soluzioni illegali. Un lavoro normale, insomma.

Ed ecco il paradosso. I richiedenti asilo come Daniel e la sua famiglia hanno un permesso di soggiorno per motivi umanitari, che dura due anni. In questi due anni, devono dimostrare di aver trovato un lavoro. In questi due anni, una commissione chiama la persona a colloquio, in una data decisa arbitrariamente e non negoziabile, e lo interroga con la sola presenza di un mediatore linguistico. La commissione deve capire se il richiedente si sta muovendo nella giusta direzione e se è sincero, dopo di che decide del suo futuro.

Daniel vive a Milano e provincia da un po', ma figura ancora negli elenchi di Catania.
Come per altre decisioni, le direttive governative mirano a un risultato finale senza analizzare nulla del processo, del lavoro che sta in mezzo. E il lavoro che sta in mezzo è enorme, fatto di operatori sociali, volontari, associazioni no profit e non governative. Fatto di ascolto e dialogo, fatto di ricerca di soluzioni, fatto di iniziative locali, di cene di beneficenza, di conoscenza.

Dei perchè, manco a parlarne.

Nel 2016, il 7,8% dei conflitti armati in Africa ha avuto luogo in Nigeria. Un quarto di tutti i decessi in Africa si è verificato in Nigeria, rendendolo il paese più pericoloso per i civili africani: si conta che in sette anni di insurrezione armata il gruppo islamista Boko Haram abbia ucciso circa 15mila persone, costringendone all’esilio più di due milioni. Eppure, si continua a dire che «in Nigeria non c'è guerra»
(da Vita.it)


mercoledì 6 marzo 2019

Well done, Pietro!




...all I have to say is that this is hard work. I've worked hard for a long time, and it's not about, you know...it's not about winning. But what it's about is not giving up. If you have a dream, fight for it. There's a discipline for passion. And it's not about how many times you get rejected or you fall down or you're beaten up. It's about how many times you stand up and are brave and you keep on going. 



Ieri si è laureato Pietro, il terzo della grande famiglia, primo ingegnere.
Una giornata di sole ha illuminato il Poli Leonardo, affollatissimo proprio per le lauree, con il piazzale pieno di gente, corone d'alloro, cori del "dottooore, dottoore", risate, bottiglie stappate.
Prima di questo l'aula 01 dell'Edificio 2 strapiena, slalom nel silenzio assoluto, due donne nel gruppo con una da 110 e lode. Emozione da traguardo tagliato, da liberazione, da adrenalina che si scioglie, da sorrisi differenti.
Anche Pietro ha iniziato a sorridere diversamente, anche lui si è sciolto e ha persino brindato, lì sul piazzale e la sera,a cena con tutte le persone che hanno risposto al suo invito. Le persone che hanno voluto stargli vicino, semplicemente. Felicità è anche condivisione, è una sincera ammirazione per chi fa scelte e percorsi differenti e ottiene.

Così, cugino, ti dedico le parole di Lady Gaga. Le ha pronunciate la notte degli Oscar, con la statuetta in mano e le lacrime agli occhi. Sì, lo so, forse non ti saresti aspettata proprio lei, eppure sono perfette per gioire, assaporare e andare avanti. Brave, senza paura. Accogliendo tutte le curve che la vita ti proporrà.