giovedì 7 marzo 2019

Chiusure umanitarie, aperture umane

Daniel mi ha mandato un curriculum.
E' un ragazzo intelligente, sveglio, propositivo.
Me lo ha mandato due volte, perchè ci ha pensato su e lo ha aggiornato.

Fino a qui, un normale CV europeo.
Se non fosse che Daniel arriva dalla Nigeria, ma prima ha mandato la moglie, che aspettava un bimbo. Fino a qualche mese fa abitava alla Cascina Calderara di Magenta, che poi ha chiuso. Oggi, grazie alla cooperativa "I Girasoli", vive a Milano con Amaka, la moglie, e la piccola Silvia.

L'ho incontrato sabato, brevemente, a causa di Claudia. Ha una bella parlantina, nonostante sia in Italia da meno di un anno. Integra le lacune con locuzioni, oppure passa all'inglese. Un armadio di 35enne che vuole solo lavorare, che ogni giorno, intanto, va a scuola di Italiano.
C'è un problema, però. Il ragazzo ha il permesso di soggiorno in regola, ma non ha i documenti. Non li ha perchè le direttive governative, oltre a chiudere i centri di accoglienza, bloccano l'emissione della carta di identità e dei codici fiscali.

Cercare lavoro senza documenti non è facile e non ci vuole un ripasso di Pirandello per capirlo.
Un lavoro regolare, non in nero. Non nei campi, non vivendo di espedienti, non cercando soluzioni illegali. Un lavoro normale, insomma.

Ed ecco il paradosso. I richiedenti asilo come Daniel e la sua famiglia hanno un permesso di soggiorno per motivi umanitari, che dura due anni. In questi due anni, devono dimostrare di aver trovato un lavoro. In questi due anni, una commissione chiama la persona a colloquio, in una data decisa arbitrariamente e non negoziabile, e lo interroga con la sola presenza di un mediatore linguistico. La commissione deve capire se il richiedente si sta muovendo nella giusta direzione e se è sincero, dopo di che decide del suo futuro.

Daniel vive a Milano e provincia da un po', ma figura ancora negli elenchi di Catania.
Come per altre decisioni, le direttive governative mirano a un risultato finale senza analizzare nulla del processo, del lavoro che sta in mezzo. E il lavoro che sta in mezzo è enorme, fatto di operatori sociali, volontari, associazioni no profit e non governative. Fatto di ascolto e dialogo, fatto di ricerca di soluzioni, fatto di iniziative locali, di cene di beneficenza, di conoscenza.

Dei perchè, manco a parlarne.

Nel 2016, il 7,8% dei conflitti armati in Africa ha avuto luogo in Nigeria. Un quarto di tutti i decessi in Africa si è verificato in Nigeria, rendendolo il paese più pericoloso per i civili africani: si conta che in sette anni di insurrezione armata il gruppo islamista Boko Haram abbia ucciso circa 15mila persone, costringendone all’esilio più di due milioni. Eppure, si continua a dire che «in Nigeria non c'è guerra»
(da Vita.it)


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