giovedì 11 aprile 2019

Ciao, Bella mia

Sono figlia di due persone che sentono il profumo della loro terra.
Che sono andate via, dalla loro comunità, per motivazioni diverse, ma che non hanno mai smesso di percorrere la Penisola da sopra in giù e da sotto in su più volte l'anno, in auto e in treno.

Dei viaggi in auto ricordo le lotte mani e piedi in faccia per dividerci il sedile posteriore, io e la Manu. E due valigie messe dietro i sedili anteriori, per darci l'illusione di avere un letto su cui sdraiarci capo/piedi senza mai smettere di litigare, chiedere quando manca, contare i camion, tenere svegli mamma e papà che non potevano sdraiarsi mai. Ricordo viaggi notturni, ricordo un incidente in galleria, ricordo code e gente che si scambia bottigliette, incendi che lambiscono l'autostrada, caldo e freddo, autogrill in cui è meglio non fermarsi, una Salerno-Reggio del tutto imprevedibile. Il cartello Calabria, quando inizi a tirare il fiato ma ti aspettano altre tre ore abbondanti. L'uscita dall'autostrada divisa da oleandri rossi, rosa e fucsia e quelle curve a memoria, la fonte a inizio paese.
Del treno ricordo l'odore. Se chiudo gli occhi lo sento anche adesso. Ricordo prenotazioni lette fuori dalle carrozze alla luce di un accendino, persone pigiate in tutti gli angoli, che dormono anche sedute sulle tazze dei cessi, sdraiate in alto, nei portapacchi del corridoio o sotto i sedili pieghevoli, per terra, porte scorrevoli che si aprono cento volte, proteste per due posti prenotati per due bimbe. Cuccette roventi o gelate, lenzuola ruvide che non nascondevano mai quell'odore.
E stop interminabili nella neve, lunghissimi guasti. Ricordi anche molto lontani, quando il terrorismo faceva ancora danni e causava morti. E meno, di chiacchiere e panini e anche di cambi treno quando le Ferrovie hanno decretato l'Italia, quella veloce, finisce a Salerno.

Quel profumo, invece, quello della terra, noi di sangue trapiantato altrove lo sentivamo soprattutto a Pasqua. Quando il treno fermava a Gioia Tauro e funzionava ancora la littorina, un trenino che portava direttamente al paese, senza scomodare nessuno. O quando fermava a Villa San Giovanni, di fianco ai traghetti delle Ferrovie e ai Caronte pieni di arancini perfetti, quando, ancora con il piede sulla scaletta, ti investiva l'alito caldo di mare e di monti insieme, quel venticello che a loro, i calabresi, fa tirare su il bavero della giacca, gesto che ci faceva molto ridere.

La Pasqua in Calabria è sempre stato un momento bellissimo. Il mare si andava solo a guardare, ma era tappa fissa. Papà adora il mare e lo ha fatto amare a tutti i cugini, insegnando loro a nuotare, a giocare, a viverlo con il suo entusiasmo. Lo zio Rocco, al mare, non prende mai il sole.
A Pasqua c'erano le celebrazioni, che muovevano tutti gli abitanti, con personificazioni fedeli, trucco, atteggiamento, riconoscimento sociale, un sacro e profano inscindibili. C'erano le viole mammole grandissime in Aspromonte, le capre e la ricotta calda, appena spremuta negli stampi, spalmata sul pane di grano e i campi, le famiglie che coltivano insieme una grande piana che si spalanca dopo i primi trenta tornanti di salita sull'Aspromonte.

Tappa fissa, la casetta della zia Rosa, a Pasqua e d'estate. La trovavi lì, appena dopo l'ultima curva che rivelava quella spianata infinita coltivata a mano e coi trattori, vicino al tiro a volo. La macchina sembrava svoltare a sinistra nel vialetto naturalmente, senza forzature, come se conoscesse la strada.
E la zia sembrava aspettarci sempre.

Racconta mamma che, da quando papà si è presentato a casa per chiedere la sua mano, sono usciti solo accompagnati. E spesso era il nonno, lo chaperon, il vero comunicatore zero-punto-zero della famiglia Siviglia. Lui, i fratelli e le sorelle avevano uno spirito irriverente, e lo hanno espresso, in misure differenti.
Il nonno era conosciutissimo, era un uomo allegro cui piaceva bere e questa sua inclinazione era nota, perdonata quando eccedeva e riaccompagnata a casa, condivisa da molti. Il nonno brindava, mandando sottovoce a quel paese chi non gli piaceva, senza mai perdere l'allegria. Faceva scherzi, lasciava cadere come un monello la cenere della sigaretta nelle giacche di chi aveva seduto accanto, cantava. Il nonno aveva gli occhi furbetti e ardenti.

Erano tutti occhi bellissimi. Quelli dello zio Cosimo e quelli dello zio Gianni, e quelli del nonno Domenico; quelli della zia Maria. Non ho conosciuto le altre due zie, Peppina e Iata, ma non facevano certo eccezione. Anche Rosa aveva occhi belli, i più belli di tutti i fratelli. Avevano un colore tra il verde e l'azzurro che cambiava a seconda del tempo, e soprattutto una pelle liscia, levigata, con guance rosse, una pelle che nessun altro ha. Una matrona bellissima che, all'interno della comunità, come tutte le donne del paese,era il vero fulcro della famiglia. Con in più un marito decisamente fuori dall'ordinario: lo zio Angelo, magro, schivo, sempre abbronzato dal sole, allevatore, di poche parole.

Noi arrivavamo, in salita verso la montagna e funghi (irrinunciabile ricerca), la seggiovia degli impianti sciistici addormentati, il Cippo Garibaldi, il Laghetto, la gita del Ferragosto o la mangiata al ristorante frondoso, con giro sul cavallo, oppure a spiare da lontano il sito Nato abbandonato, o a salire fino a Polsi, dove a noi interessava solo la Madonna della Montagna, arrivando alla Rosa Dei Venti per guardare dall'alto lo Ionio e il Tirreno semplicemente voltando la testa da un lato o dall'altro. O in discesa, dopo tutto questo, a patto che non fosse tardi, perchè fa buio alle 20 e gli zii seguivano la legge del Sole.

Arrivavamo e la zia ci abbrancava uno a uno, con baci e abbracci potenti e più che materiali. Chiamava con una voce incredibile lo zio, lo strappava dalle capre, apparecchiava e tirava fuori sempre qualcosa. Non esiste visita senza condivisione. Non esiste rifiutare. La zia dava ordini precisi ai cugini della mamma e dovevamo nel giro di poco tempo avere tra le mani qualcosa da bere o da mangiare, un pezzo di formaggio da portare via, una tovaglia ricamata o comprata chissà quando per noi. Ma quella è forma, mentre la zia Rosa era tutta sostanza. Tanta. E non poteva essere altrimenti. Ci raccontava con grande allegria tutto quello che riguardava i suoi, parlava del paese, vissuto in ogni caso per molti mesi l'anno nello splendido isolamento della campagna. Condivideva tutto, gioia e dolore. Tutto. E soprattutto aveva l'affetto, in quegli occhi. L'affetto che strabordava da un cuore enorme. Un affetto che le famiglie dei miei hanno spesso fatto fatica a manifestare, per varie ragioni. Un affetto che colmava quei vuoti.

Non stava bene da tanto tempo, la zia. Ma chiamava ogni settimana. Si faceva fare il numero dalle cuginette e chiamava, senza dimenticare nessuno. Chiedeva meticolosamente di tutti e poi ci informava del suo stato di salute. Uno stato irreversibile che nessuno, nessuno, voleva prendere in considerazione.
Ieri c'è stato il funerale. La mamma, lo zio e la zia hanno preso un aereo all'alba e sono tornati a notte fonda e hanno trovato un mare di persone, alla veglia e in piazza, in chiesa, per le strade. La zia aveva organizzato tutto: il vestito, le scarpe, i soldi necessari, il coro e la banda. La banda del paese ha attaccato a suonare in questa giornata primaverile scivolando sulla pelle di coloro che erano là, riportando ad ognuno un po' di quei grandi abbracci, un po' di quelle guance che rubizze non erano più ma che sono impossibili da dissociare. Io la ricorderò sempre così.

Se n'è andata così, in primavera. Tra poco è Pasqua.

domenica 7 aprile 2019

Sì, ho qualcosa da dire

Quando mi hanno chiesto di partecipare alla vita pubblica del mio paese per la prima volta, avevo 25 anni. Mi stavo laureando, scrivevo su un settimanale locale da cinque anni, avevo collaborato con un periodico e con il giornalino della Pro Loco.

In questo piccolo paese c'era una vita sociale intensa, scrivevo per il giornale tre, quattro pezzi a settimana, non riuscivo a essere ovunque, spesso chiamavo, facevo interviste telefoniche, andavo alle feste, ai consigli comunali, lavoravo. Succede però che anche così non va bene, e quando quella lista civica mi ha voluto con sé sono iniziati problemi che fino a quel momento non avrei mai pensato mai di avere. Mille progetti, il primo lavoro, tante sfide. La stupidità di lasciarmi toccare da lotte che non mi riguardavano nemmeno.

Oggi so che coloro che ci stanno intorno non ci capiscono, o non sono veramente interessati, o sono sadici. E so che lasciare agli altri di capirci e non il contrario, non dare agli altri la miglior spiegazione di sé, è sempre un errore. Quindi allora ho sofferto molto. Un peccato, perché la politica mi è sempre piaciuta. Ho pensato di non esserne tagliata. Ho lasciato correre pure la diffamazione, limitandomi a far piagnucolare un'avvocata al telefono.

Poi mi hanno rivoluto, cinque anni dopo, e ho fatto altre esperienze. Convegni provinciali e nazionali, riunioni a Milano, discussioni su temi importanti, Bruxelles, la campagna di un europarlamentare, un mensile da dirigere. Ma ho avuto paura di riprovare quella sofferenza, ho di nuovo pensato che non ne valeva la pena. Davvero un brutto modo di usare la testa!

Ma questo non ha fermato i problemi. Non è la mia vita a crearne, però. Non sono le mie scelte. Nemmeno le azioni di una persona che cerca il suo percorso di vita. E' anzi un bel modo per scoprire chi non sa separare, chi non sa argomentare, chi non ha capito o chi, semplicemente, è disinteressato. E' anzi un bel modo di spiegare, senza lasciare a false interpretazioni. E' un modo di usare la parte creativa e razionale del cervello insieme, un modo di dare con egoismo. Oggi è divertente: che peccato essere stata così male!

Mi prendo i miei spazi e uso le parole, non solo scritte. Quelle fluiscono e si sviluppano con un senso logico che non pianifico; costruiscono sensi compiuti nel momento stesso in cui si formano su uno schermo, escono da un tratto di penna. Quelle dette, invece, non sempre sono altrettanto pungiglionate, così autodisciplinate. Per tanto tempo le ho rifuggite, ho cercato di educarle con dizione, respirazione, ma spesso inciampavano, c'è stata emozione, ci sono stati esercizi, prove e riprove, errori, fatica. Ma nulla di questo è stato vano. Quegli spazi ci sono e sono felice di avere un'altra possibilità.

D'altra parte, la politica è bellissima. Una bellissima professione da separare, conservare, coltivare.
Con buona pace degli amici che non sono più amici per questo.
Magari quegli stessi che, in questi 15 anni, sono rimasti a tagliare giudizi dallo stesso marciapiede.

lunedì 1 aprile 2019

Piccole guerre di genere

Quando inizio un nuovo progetto in una nuova città, mi affido a quel sesto senso che spesso lasciamo da parte e, pur senza volerlo, senza troppo meccanicamente registrarlo, faccio la somma delle sensazioni.

Quando ho iniziato a frequentare Trento è stato così. Mi sono dedicata per più di un anno solo ed esclusivamente all'aspetto tecnico del lavoro da svolgere. La priorità era incentrata sulla modalità del servizio. E, nonostante questo, le prime difficoltà sono arrivate dal fatto che io sia una donna, e le mie osservazioni a qualche maschio alfa non sono state gradite.
Che fare? Nulla, basta sedersi e aspettare. E continuare a lavorare con un gruppo di persone all'interno di un palazzetto pieno di aperture, su tre piani tutti comunicanti, senza settori separati.
E formare un coordinatore e una coordinatrice. E questo post è dedicato a Chiara.

Chiara è di Ferrara, ma studia a Trento e abita in pieno centro, in condivisione. Il suo accento è un mix meraviglioso di suoni morbidi e ha un numero di anni meno di me imbarazzante. Ha occhi grandi e ha sempre un sottile gusto nel vestire, seppur di nero, seppur abiti adatti ad un lavoro di stewarding, seppur dovendo camminare molto. E ha una capacità di organizzare quaranta persone unica. Non urla mai, anche quando ha a che fare con tifosi molesti, ubriachi, offensivi. Quando le chiedono: chi sai tu?, voglio parlare con il responsabile!, risponde con calma che la responsabile è lei. Perchè è vero: è la mia coordinatrice e solo Gabriele, il suo pari, svolge come lei questo lavoro. Ma, a differenza di Gabriele, deve subire una serie di piccole dimostrazioni di maleducazioni, battute, trattamenti differenti, solo in quanto Chiara. Anche nella civilissima e fantastica Trento.

Ma anche lei ha imparato ad aspettare. Un lavoro si costruisce con il tempo, con gli eventi che si affastellano partita dopo partita, stagione dopo stagione. Prima crollano quelli che pensano: che ci vuole a fare il coordinatore? Poi quelli che dicono: perchè lei e non io? Poi persino quelli che sospettano un privilegio (anche se in questo caso no, non me l'ha data). Resistono solo i maschilisti veri, purtroppo. O gli occasionali misuratori di peni, quelli che devono entrare senza biglietto o passare per forza dove non si può o ignorare una norma del palazzetto solo perchè sono loro, splendidi Italiani privi di regole. Che non ammettono errore, mascherandolo dietro l'insulto del momento.

Sedersi e aspettare costa molta fatica. Il mio fegato lo sa benissimo, ma ogni volta che posso cerco di dare a Chiara un'altra prospettiva, che ridimensiona tutto,la restituisce nella giusta prospettiva. Io ho urlato e picchiato i piedi e ingoiato bile moltissime volte e sospetto di farlo ancora per molto.
Ma poi guardo Chiara, e Gabriele, e penso che sia una fatica ampiamente ripagata.
Mi piace pensare di condurre una piccola battaglia in un piccolissimo pezzetto di mondo e vincerla, insieme a questa generazione di venticinquenni decisamente più forti di me.