lunedì 30 novembre 2020

Sei tu che sei Bella Vera!

Se penso alla parola “tinello” mi viene in mente solo una casa, e non è la mia, né quelle in cui sono cresciuta. Fino all’età di sei anni sono stata in un grande appartamento arioso, e a cucina, seppur essenziale negli spazi, mi pareva enorme come solo nei ricordo di una bambina può essere. Dopo, la cucina si è allargata davvero, e comprende anche un camino. Quella a casa mia non esiste: fa parte della zona giorno e va benissimo così, a rallegrare con il suo rosso ciliegia una delle due grandi stanze in cui vivo.

Il tinello, invece, è un’altra cosa e solo quello di zia Vera può calzare a pennello la definizione. E’ lì che zia mi attende, nel quartiere Testaccio, periodicamente. Lì dove so che, chiamandola dal cortile, ogni volta, come sempre, si affaccerà alla finestra all’angolo del primo piano incorniciata da piante e filo da bucato. Ogni volta che la vita mi fornisce un’occasione di partire per la Capitale la colgo al volo. Non c’è nemmeno da sindacare sul dove starò, ed è questo che mi rende casa una città che mai perderà il suo fascino, nonostante le storture che i cugini mi mostrano da sempre. L’ultima occasione è stato il concorso dei giornalisti Rai, affrontato con la giusta dose di disincanto grazie a questo calore.

Roma mi ha accolto con la pioggia e con il sole, con la piazza Testaccio non più occupata dal mercato coperto che, con buona pace di Totti, ora si svolge nel capetto che lo ha visto nascere come calciatore. Mi ha accolto con la ruvida sincerità che questo 2020 mi è stata restituita, dopo la perdita di un lavoro in cui le maschere mi avevano sepolto. Quella lingua svelta e priva di cortesie inutili mi ha restituito, al rientro, ancora più autentica. E quei giorni con la mia famiglia mi hanno anche regalato la bellezza di essere adulti e poter parlare davvero di tutto.

Ed è stato proprio quel tinello a darmi la migliore possibilità di raccogliere quel non detto prima. Mentre i cugini, con lunghi giri a piedi tra l’Aventino, Trastevere e il Quartiere Ebraico, l’Isola Tiberina e Campo de Fiori, hanno riannodato i fili della Bellezza in una città mai così poco affollata, lei, la zia, ha dato nuova prospettiva ai miei ricordi, svestendoli di quella innocenza fanciullesca di cui erano rivestiti. Ed è uscito tutto il dolore delle croci che porta sulle sue spalle e che non riesce a seppellire, quel dolore che non riesce a superare seppur nella gioia di una famiglia che le ha portato nuove gioie. Mi ha raccontato la donna, sposa adolescente che arriva a Roma e la ama con tutto il cuore. La lavoratrice mancata per gelosa volontà del marito, ma che grazie alla Parrocchia riesce a svolgere anni di volontariato con mille escamotage. E quegli occhi sempre un po’ tristi anche quando la bocca sorride mi restituiscono come in un film i lutti della sua vita: lo zio e due figli, di cui ho preso parte come pallida comparsa solo per la perdita più recente. E la guardavo, zia, mentre cavava il nero dal petto senza che questo però uscisse e la liberasse, che si caricava il peso di quella parità di genere che non ha visto ma che ha costruito accettando tutte le disparità come se fosse quello, il compito. Vera, come il suo nome e ruvidamente sincera, di quella verità che lascia sgomenti. Di quella verità che ti cambia la prospettiva, per sempre. 


Niente è più come prima, dopo questo bagno in Tevere. E nonostante sia un anno maledetto, ho un motivo in più per ringraziare questo 2020.

domenica 29 novembre 2020

Ne abbiamo tante, di Scatole piene!


Quante volte ci siamo detti: ecco l'idea giusta! O meglio, ecco la formula giusta, di un'idea che frulla da mesi e mesi nella testa. Eccola, la formula: si chiama Scatole di Natale. 

Scatole di Natale nasce a Milano, inizialmente riguarda la città (ma si allarga subito) ed esprime in pieno lo spirito di condivisione che la pandemia ha stimolato in molti di noi. Basta una scatola delle scarpe da riempire con pochi componenti: qualcosa che scaldi (dai calzini, al maglione, alla sciarpa, al cappellino), qualcosa per la cura di sè (saponi, creme, profumi), qualcosa che diverta (giochi, libri, musica), qualcosa di goloso e un biglietto di auguri sincero, che arriva al cuore più di qualsiasi oggetto. E queste cose possono essere nuove acquistate, nuove mai usate di cui sono piene le nostre case, usate come nuove e integre, in corso di validità. Buone come il vento che le muove.

Ieri sera leggevo i post di un gruppo di Facebook composto da professioniste della comunicazione, ed ecco Francesca che espone questa iniziativa. Le scrivo, e ci rendiamo subito conto di conoscerci già da tempo: abbiamo amici in comune che lavorano nel mondo del giornalismo e dello sport, noi due ci siamo presentate anni fa. E allora rilancio, in questa partita ideale: faccio da punto di raccolta e vengo io a portare il tutto, per i prossimi due sabati. Facciamo rete, con Francesca, allargando il campo di gioco a Simona e Marion. Simona è la mente insieme a me del progetto fotografico Bastano gli Occhi, che raccoglie frammenti di storie professionali e personali di vita che continua oltre la mascherina e con tutta la forza dello sguardo; Marion è invece il motore logistico di Scatole di Natale, che ha ideato e sta organizzando di fatto la raccolta, accogliendo come con noi tutte le richieste di collaborazione. Francesca è contentissima perchè è una delle prime a condividere il Marion-pensiero: non sono solo io a proporre la rete. L'idea ha fatto gol, sfuggendo dai guantoni della naturale diffidenza con cui ormai accogliamo una proposta.

In sostanza, quindi, per Santo Stefano Ticino il punto di raccolta sarà lo Studio di Architettura Negrini Simona. Chi vorrà può portare la propria Scatola di Natale lì, in Vicolo Sant'Anna 2/A. O le proprie scatole, rivestite con carta o disegni, decorate come si desidera, ma corredate con una scritta in un angolo che spieghi se il regalo è destinato a un bimbo, una bimba (e l'età, più o meno), una donna o un uomo. Ma i punti di raccolta sono tantissimi: sulla pagina c'è un lungo elenco, e crescono proprio mentre sto scrivendo questo post, a Magenta, a Corbetta, in moltissimi posti e presso privati.  

Marion è sommersa dalle richieste, dunque. In 48 ore sono arrivati 5.000 like alla pagina Facebook, è presente anche su Instagram e il cellulare non smette un attimo di squillare, il whatsapp è caldo, i commenti sono tantissimi. Ha centrato il punto: la formula giusta che tutti noi possiamo applicare. La ricetta con pochi e semplici elementi che tutti abbiamo, conditi dall'affetto delle parole. Un modo per starci vicino senza filtri. 
Scatole di Natale ci rende tutti amici. I miei, ad esempio, ogni anno organizzano la tombola dei regali riciclati alla Befana. Questa idea, per quest'anno così particolare, la anticipa e la rende possibile a migliaia di noi. 

Saremmo molti, nei prossimi due sabati, a raggiungere il magazzino di San Siro. Carichi di Scatole di Natale colorate e utili, che alleggeriscono le nostre case spesso piene di doppioni e riempiono il nostro cuore. Ne abbiamo tante, di Scatole piene, e un'iniziativa come questa non toglie nulla alle altre di Natale. Semmai ci rende tutti più ricchi.

martedì 17 novembre 2020

Mancanza di compassione

Lo scorso sabato, sulla pagina di un Comune dell'hinterland milanese un medico di base ha sbottato. Ha sbracato, si è lasciato andare a considerazioni arrabbiate e parole di fuoco.
Era uscito a ritirare i DPI della Regione e ha incontrato moltissime persone in giro. Come se niente fosse, insomma. Come ogni santo sabato di quel Comune, in cui continua a svolgere il mercato, per fare un esempio tra tanti. 

Il dottore ha dedicato una decina di righe ai suoi pazienti e a quelli dei suoi colleghi nel modo più diretto possibile, ma ha ottenuto lo stesso risultato se avesse usato toni meno accesi. Tra le risposte, molte di scherno, qualche insulto (e che ci faceva in giro, lui?, mostrando di non aver compreso per nulla il post), e altre che negano il momento, che rivendicano libertà di circolazione. Insomma, non si accetta nulla, e tutto per lo stesso motivo: la paura. Quella del medico, per la salute della comunità e di se stesso, per lo stress cui è sottoposto insieme alla sua famiglia. E di chi non vuole comprendere il significato del suo sfogo per allontanare da sè il pericolo, rifiutando tutti i segnali di anormalità. 

Ma non stiamo vivendo un periodo normale. 
Oggi un collega radiofonico esce dal'ospedale dopo 28 giorni. VENTOTTO giorni di cadute e progressi che lui ben ha descritto come una lunghissima spartan race sdraiato sotto un percorso di filo spinato infinito. Di solitudine, circondato da persone in camici bianchi, senza un centimetro di pelle esposto. Solo occhi da guardare, solo quello, e compagni di viaggio distesi e striscianti sotto lo stesso lungo percorso puntuto senza fine. Esce, ma ha scritto molto, di debolezza e umiliazione, di insonnia e pensieri che non si fermano mai, e di reazione. 

Ma oggi, per me, è stato un altro giorno di lutto: una delle persone vicine ricoverate in ospedale ha smesso di lottare. Un uomo di una gentilezza infinita, il nonno dei miei cugini. Fratello e sorella che in questo 2020 hanno perso tre nonni amatissimi, che hanno avuto la fortuna di avere accanto con presenza e costanza. Chi ha il coraggio di dire loro che - tanto - erano vecchi? Forse gli sbeffeggiatori del medico, chissà. Forse qualcuno in cerca di tre minuti di celebrità. Cinici senza scrupoli che passano sopra a un dolore quasi solido, impotente persino nell'impossibilità di correre al capezzale, di stringere una mano che mille volte ha stretto loro, guardare quegli occhi che hanno seguito per anni, a lungo, i loro passi. Anche solo quegli occhi sarebbero bastati, sempre e per sempre pieni di orgoglio. 

Ad altri, invece, la vita non insegna nulla.

lunedì 9 novembre 2020

La rottamazione dell’eccellenza

Fiore all’occhiello. Elezione.
Dimissione protetta. Terapia. Follow up.
Chi lavora in un ospedale parte sempre da qui: da quello che ha fatto scegliere questo mestiere. Subito, o ad un certo punto della vita, stravolgendola totalmente. Per aderire a una missione, è vero, che però comprende, tra gli obiettivi di cura, anche l’eccellenza. 

In Lombardia questa eccellenza non interessa a nessuno, tra coloro che hanno trasformato il suo Sistema Sanitario da Unità Socio-Sanitaria Locale ad Azienda Territoriale Sanitaria. E ATS ha applicato la logica aziendale. Quella che mette ai vertici la propria nomenclatura e taglia tutti i costi possibili. 


Partiamo da qui. Per comprendere cosa è successo in questo 2020 è importante capire dal punto di partenza. Dal contesto. Dal panorama costruito da 1997, quando il “Socio” viene eliminato dalla narrazione. Quando sono iniziati gli accorpamenti, quando le convenzioni coi privati sono fiorite, quando i tempi in ospedale si sono ridotti. Quando, insomma, il Servizio Sanitario era organizzato in modo che dirigenti, superiori, piani alti, avessero degli obiettivi di bilancio da perseguire. I bonus, in azienda, si ottengono con i dati di profitto, di percentuali conquistate, di margine. E il margine è il taglio dei costi. I costi del personale sono una voce preponderante che mal si accorda alla logica del profitto. Se ho un numero ristretto di infermieri, medici, tecnici di radiologia, sono un bravo dirigente per la mia azienda, bravissimo se organizzo lo staff in modo che facciano tutto. Pazienza per l’eccellenza, la tecnologia ci viene in aiuto, no? Basta mantenere un protocollo, uno standard; una check list da spuntare. E se saltano i riposi del personale? Se malattie, ferie e permessi creano qualche buco è semplice: saltano i riposi. Il buco è tappato dai presenti, senza le assunzioni che garantirebbero a tutti lo stesso trattamento. Eccolo, il panorama. Piatto, Padano. Livella veloce. Rullo senza merito. È in questo scenario che arriva la pandemia.

Cosa accade a Marzo?
C’è un picco enorme, inaspettato, nelle terapie intensive. I posti sono contati, perché a Regione Lombardia sono posti che costano molto. Con quel picco i posti si sono comunque quadruplicati.
Quella di Humanitas, ad esempio, è passata da 13 posti letto a 54. Sembra anche poco, in realtà. Poco, finché non si capisce cosa significa aggiungere 41 posti letto in un reparto del genere. Quanto spazio, quanti materassi. Quanti ventilatori. Quanti monitor, quante bombole, quante pompe a infusione. Quanti rianimatori, per quarantuno. Quanti infermieri, per quarantuno, che facciano un mattino, un pomeriggio, una notte, uno smonto e un riposo; quanti a turno tutti insieme. In più.
Oh bella: Regione Lombardia si sveglia dal dolce torpore ultraventennale e si accorge di non avere le risorse umane per coprire questo surplus di richieste. Ma siamo diventati un po’ tutti Wolf, e da bravi project manager ossessionati dal margine siamo del problem solver, con quel linguaggio finto internazionale tanto caro ai vertici di comando. I collaboratori, per prima cosa. Coloro che saranno pagati a prestazione, grazie alla loro P.IVA che spesso li ha fatti scappare da quei turni massacranti in cui a volte si saltavano i riposi. Neolaureati, neodiplomati, ultimi anni. Qualche assunzione, forse.
Ma la soluzione più rapida è stata la conversione.

Prendiamo la lente di ingrandimento e facciamo degli esempi concreti. L’Ospedale di Magenta vantava eccellenze nella Chirurgia della Plastica, la Chirurgia della Mano, l‘Urologia. L’Ospedale di Abbiategrasso ha rinnovato piani interi. Accorpati a Legnano, il secondo ha il Pronto Soccorso solo diurno, e piani nuovissimi deserti; il primo è solo succursale. Convertire tutti quello che era elezione (l’intervento programmato, l’intervento di medicina) è stato rimandato; il personale là impiegato, spostato sulle terapie intensive. Da qui la sospensione di interventi, visite, accessi, sale operatorie. Quest’ultime portano spesso bei soldi nelle nuove Aziende Territoriali, ma Marzo ha imposto lo spostamento da una casella all’altra di tutto il personale. L’area Covid ha ulteriormente contribuito a livellare le competenze degli addetti ai lavori con gli stessi soldi e un ritmo ancora più serrato. E i post operatori? E le terapie? Si studia ora la ripercussione che questo avrà sul SSN a lungo tendere sulle persone, in primis sulla prevenzione di tumore, sui follow up. Pazienza se, nonostante questa enorme operazione diversiva, nonostante Mr.Wolf qualche paziente è finito Palermo, o in Germania perché non ci sono posti letto. In solitudine.

E poi la situazione è lentamente migliorata. Da qualche parte si sono salutati i medici cubani, ovunque le visite specialistiche sono riprese con orari estesi al massimo, anche di sabato e di domenica, chiedendo al personale, di fatto, di non tirare mai il fiato. Là, ai piani alti, grandi strette di mano: tutto sommato è andata. Fino a Novembre. Dove la manovra diversiva ha investito anche la consueta spesa vaccinale.


M., infermiere a Legnano, parla di tsunami. La criticità è partita dal Pronto Soccorso, per poi estendersi piano piano all’area internistica che si riempie di malati. Non si sa più dove mettere i malati Covid, e si ricomincia con la chiusura dei reparti, come quello di Otorino. È stata aperta un’area vicino alla Rianimazione dove i malati non hanno i bagni, non possono essere lavati. Nei reparti i colleghi piangono, sono positivi, si contagiano facendo anche interventi di routine. La scoperta della positività avviene soprattutto quando sale la febbre. Perché sugli altri malesseri si soprassedere, c’è poco tempo per pensare. I turni, spesso, sono diventati di sei ore, come in Humanitas. 6.00-12.00, 12.00-18.00, 18.00-24.00, 24.00-6.00.

Sei ore. Ma non avevamo parlato di turni massacranti? Il panorama, recuperiamo il panorama.
S., infermiera collaboratrice in Humanitas, mi racconta che non ci si può svestire da soli. Un’altra persona deve sempre aiutare il collega perché il contagio è più facile quando ci si libera dei dispositivi rimasti a contatto in reparto. E, una volta vestito e con nessuna parte esposta, grazie a tuta, mascherina, visiera, da quel momento iniziano le sei ore (che non sono sei, quindi) e non si esce più dall’area Covid. Si suda, la divisa di cotone al momento della svestizione è bagnata. Non c’è possibilità di grattare il naso se prude, soffiarlo se arriva uno starnuto, disappannare gli occhiali se l’aria passa nel modo scorretto. Qualcosa messo male resta così. Gli elastici della mascherina? La spallina del reggiseno? La calza che cade? Una piega degli indumenti che preme da qualche parte? Non c’è modo di aggiustarli: quel fastidio nella testa durerà sei ore. Non si può fare pipì, né ovviamente altri bisogni. Il consiglio è di non mangiare né bere per almeno un’ora e mezza prima del turno, è vietato avere fame. Con l’incubo della contaminazione.

Questo disagio non ha avuto alcun riscontro economico. Si era parlato di 100 euro in busta, ma non esiste in nessuna voce della busta paga. Un infermiere di terapia intensiva, con le indennità, i turni, le notti, i festivi, guadagna 1.500 euro. In un normale reparto di degenza in prima categoria un infermiere guadagna sui 1.460.  Ma oggi tutti sono catapultati in un’altra realtà, senza nessun riconoscimento annunciato.
Anzi. A Magenta i tamponi si effettuano solo dalle 9.00 alle 13.00, da personale in riposo, o che fino ad una certa ora è occupato a lavorare altrove e quando si libera va a fare i tamponi. Ci sono colleghi, spiega anche qui un’infermiera, che stanno lavorando anche da quindici giorni consecutivi per dare la possibilità di garantire il servizio. Allo stesso stipendio di sempre.

Dopo sei mesi cosa è cambiato? Nulla. Stessa situazione di prima a gestire la stessa emergenza sanitaria, gestionale, strutturale, amministrativa. Aziendale. La capacità di trovare una soluzione della cosiddetta generazione incompiuta è il vero salvagente di Regione Lombardia, ma chi lavora in Sanità sa che è una fregatura.