Se penso alla parola “tinello” mi viene in mente solo una
casa, e non è la mia, né quelle in cui sono cresciuta. Fino all’età di sei anni
sono stata in un grande appartamento arioso, e a cucina, seppur essenziale
negli spazi, mi pareva enorme come solo nei ricordo di una bambina può essere.
Dopo, la cucina si è allargata davvero, e comprende anche un camino. Quella a
casa mia non esiste: fa parte della zona giorno e va benissimo così, a
rallegrare con il suo rosso ciliegia una delle due grandi stanze in cui vivo.
Il tinello, invece, è un’altra cosa e solo quello di zia
Vera può calzare a pennello la definizione. E’ lì che zia mi attende, nel
quartiere Testaccio, periodicamente. Lì dove so che, chiamandola dal cortile,
ogni volta, come sempre, si affaccerà alla finestra all’angolo del primo piano
incorniciata da piante e filo da bucato. Ogni volta che la vita mi fornisce
un’occasione di partire per la Capitale la colgo al volo. Non c’è nemmeno da
sindacare sul dove starò, ed è questo che mi rende casa una città che mai
perderà il suo fascino, nonostante le storture che i cugini mi mostrano da
sempre. L’ultima occasione è stato il concorso dei giornalisti Rai, affrontato
con la giusta dose di disincanto grazie a questo calore.
Roma mi ha accolto con la pioggia e con il sole, con la
piazza Testaccio non più occupata dal mercato coperto che, con buona pace di
Totti, ora si svolge nel capetto che lo ha visto nascere come calciatore. Mi ha
accolto con la ruvida sincerità che questo 2020 mi è stata restituita, dopo la
perdita di un lavoro in cui le maschere mi avevano sepolto. Quella lingua
svelta e priva di cortesie inutili mi ha restituito, al rientro, ancora più
autentica. E quei giorni con la mia famiglia mi hanno anche regalato la
bellezza di essere adulti e poter parlare davvero di tutto.
Ed è stato proprio quel tinello a darmi la migliore possibilità di raccogliere quel non detto prima. Mentre i cugini, con lunghi giri a piedi tra l’Aventino, Trastevere e il Quartiere Ebraico, l’Isola Tiberina e Campo de Fiori, hanno riannodato i fili della Bellezza in una città mai così poco affollata, lei, la zia, ha dato nuova prospettiva ai miei ricordi, svestendoli di quella innocenza fanciullesca di cui erano rivestiti. Ed è uscito tutto il dolore delle croci che porta sulle sue spalle e che non riesce a seppellire, quel dolore che non riesce a superare seppur nella gioia di una famiglia che le ha portato nuove gioie. Mi ha raccontato la donna, sposa adolescente che arriva a Roma e la ama con tutto il cuore. La lavoratrice mancata per gelosa volontà del marito, ma che grazie alla Parrocchia riesce a svolgere anni di volontariato con mille escamotage. E quegli occhi sempre un po’ tristi anche quando la bocca sorride mi restituiscono come in un film i lutti della sua vita: lo zio e due figli, di cui ho preso parte come pallida comparsa solo per la perdita più recente. E la guardavo, zia, mentre cavava il nero dal petto senza che questo però uscisse e la liberasse, che si caricava il peso di quella parità di genere che non ha visto ma che ha costruito accettando tutte le disparità come se fosse quello, il compito. Vera, come il suo nome e ruvidamente sincera, di quella verità che lascia sgomenti. Di quella verità che ti cambia la prospettiva, per sempre.
Niente è più come prima, dopo questo bagno in Tevere. E nonostante sia un anno
maledetto, ho un motivo in più per ringraziare questo 2020.
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