martedì 14 maggio 2019

La foto di Daniele

Mi è tornato alla mente un episodio di quando facevo la steward a San Siro. Del periodo bello, quello che mi portava allo stadio con entusiasmo insieme al mio amico Cesare, a fare servizio in area hospitality e poi aspettare lui che invece era in garage e che doveva attendere che se ne andassero tutti, o quasi, che gli allenatori abbandonassero dopo le interviste, che l'antidoping portasse via il suo carico, che il quadro delle chiavi delle auto dei calciatori si svuotasse e che i pullman delle squadre salissero la rampa.

C'era stato un Inter Roma, ma non ricordo nulla. Non sono mai stata una da almanacco, mi sono sempre piaciute le storie e quando ricordo particolari in campo è perchè è successo qualcosa di significativo fuori, a margine, prima o dopo. E la storia è questa.

Ero appoggiata alla transenna che, insieme ad altre, creava una specie di area di passaggio tra il cancello che divide una piccola area e una più grande, nella pancia del Meazza. Quella piccola è direttamente collegata con le scale che scendono dagli spogliatoi e dalla mixed zone, dove i calciatori hanno già rilasciato le loro interviste; quella grande ospita le auto di chi ha il privilegio di parcheggiare lì.

Sicuramente chiacchieravo. Imbastire relazioni sociali è ciò che più mi riesce meglio, soprattutto quando c'è da ammazzare il tempo discretamente, in un angolo vicino al muro, attendendo la sfilata verso l'area grande degli interisti e la salita sul pullman dei romanisti, destinazione aeroporto. Ammazzavo il tempo aspettando il mio socio e gustandomi quello spettacolo da 8 e mezzo, quando la notorietà  si sveste e, fuori dai riflettori, rientra in uno scenario diverso, normale. Quando l'atleta ha la tuta, i capelli ancora bagnati, sa di bagnoschiuma, abbraccia la moglie, prende in braccio il figlio e mentre sale in macchina firma gli ultimi autografi, si presta a qualche foto, da ragazzo normale, solo più prestante di altri. Erano gli interisti a uscire così: arrivavano alla partita dal ritiro e tornavano ognuno a casa loro, lasciando che il pullman tornasse vuoto ad Appiano Gentile.

Quel bagno di normalità non interessava invece i romanisti, accomunati sì dalla stanchezza post partita, ma solo da quello. Fino a De Rossi e a quel ragazzo. Un ragazzo che lo chiama per nome, con la E aperta che nemmeno i milanesi che hanno riscritto le regole della dizione potrebbero mai utilizzare. "Daniele, Daniele, aspetta. Daniele, sono venuto per te. Ti seguo da sempre, sei il mio idolo, Daniele, non salire subito!"
Fin qui, poca reazione. De Rossi lo guarda da dietro il cancello, sorride, rallenta solo un po', lo saluta da lontano.
"Daniele, Daniele. Aspetta. Guarda, sono venuto per te". Il ragazzo estrae il portafoglio dai jeans. Lo apre, tira fuori la foto di un ragazzino con la divisa della Roma. "Daniele, ho la tua foto nel portafogli, guarda, la porto sempre con me!".

De Rossi si ferma. Non sa se crederci o no, ma si avvicina, varca il cancelletto che divide l'area piccola da quella grande e si avvicina alla transenna a cui è aggrappato il ragazzo. Hanno pochi anni di differenza, è possibile? Ma la foto è sua, è davvero sua. Stupore, un abbraccio, due grandi sorrisi.

Oggi ho pensato a quel ragazzo. Ha ancora con sé la foto di De Rossi? Chissà.
Chissà che fa ora, se affronta ancora una trasferta, se manifesta il suo entusiasmo ancora in questo modo così genuino, senza filtri, con la gioia di chi incontra il proprio idolo.
Un gesto, in mezzo ad un mare di gesti, che forse solo lui ricorderà, che forse solo qui si leggerà.

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