lunedì 13 febbraio 2023

Perchè non hai figli?

Passo a prendere una mia amica, anche se non è proprio di strada, ma il destino di chi abita fuori Milano è un po' questo: già che ci sei, vieni a prendermi? 
E dai, passo. La serata è sul Naviglio, il ristorante è basco e la tavolata è bellissima. Quella paella ce la pregustiamo da un po'. Facciamo accoppiata con sangria, da classicone, per aggiungere ancora più gioia. 

Arriviamo, ci sediamo, ordiniamo. Tre delle donne al tavolo hanno lasciato i bimbi a casa, piccoli. Forse è una delle prime serate di libertà, forse la prima per due di loro. Una piccola parentesi qui fuori, per guardarsi in viso, per respirare, magari bere poco, ma non importa. 

E poi una di loro attacca il discorso. E parla di lui, il bambino. Solo che il discorso non finisce più. Lei è un fiume impetuoso che probabilmente ha rotto gli argini. In quel ristorante basco, forse, con noi, le colleghe che hanno condiviso turni, occhiaie, orecchiette alla salentina d'asporto o improbabili schiscette, difficoltà, successi e cazziatoni, viste in tutti i modi possibili, ecco, forse lei ci ha ritenute uno sfogatoio. E il discorso è cresciuto, includendo tutti i particolari della maternità, tutti. E gli unici interventi ammessi sono stati di conferma. 

E sì, dentro esplode qualcosa. Ad un tratto ho desiderato di scappare. Di inventarmi un malore, di fuggire via lontano da quel tavolo dove solo la maternità sembrava ammessa. Solo la condivisione di un pensiero unico aveva il permesso di manifestarsi. C'è questo qualcosa che non conosci e di cui non puoi parlare che si pianta lì, in mezzo al petto. E fa male. E sì, male ho iniziato a sentirmi davvero. Guardavo il piatto e spostavo quello che era contenuto, senza appeal e senza davvero vederlo. E sì, volevo scappare da queste ragazze cui voglio bene come sorelle, ma non potevo. Avevo lei da portare a casa. E il pensiero di riattraversare Milano in due mi faceva stare anche peggio. 

Non mi ricordo come ho fatto, ma quel magone me lo ricordo bene. Quelle lacrime amarissime me le ricordo bene. Quella è stata la prova peggiore, ma poi è arrivato anche un pranzo, a Rho, in una di quelle trattorie a prezzo fisso e un altro aperitivo, ancora sui Navigli, con altre donne. In questo caso un'altra lei si sente di consigliarti un figlio, senza se e senza ma.

Non sono madre. 
Ci sono stati due momenti nella mia vita da potenziale portatrice di vita in cui ci ho pensato davvero. 
Il primo è stato con la persona giusta, ma ero giovane, appena laureata e con un lavoro immediato e, in quel momento, carico di promesse. Dall'altra parte c'era un mio coetaneo che no, non ci pensava nemmeno lui davvero. 
Il secondo è stato una decina di anni dopo, in quella seconda età che rappresenta un po' la soglia dell'ultima chiamata, almeno nelle mie idee. La persona era sbagliatissima, in questo caso.

Nel mezzo è come se fossi stata scagliata contro un muro ad alta velocità, fuori da una navetta che contiene tutte le altre, tranne te. E nessuno che venga a raccoglierti. 

Nella vita di ogni donna ci sono tanti ingombri invisibili. 
Il più grande è culturale e non finisce mai di occupare tempo, spazio, coscienza. 
Un formidabile produttore di sensi di colpa.
Il tempo ti insegna a non sentire più quel dolore fisico. 
La consapevolezza, quando arriva, ti aiuta a vedere il resto, il cambio di prospettiva, quello che sei. Ma l'ingombro occupa sempre la metà del letto, si fa spazio nell'armadio, in bagno. Reclama quella sofferenza che non vuoi provare più, ma che tutti si sentono in dovere di sottolineare. Hai meno valore al lavoro, nel condominio, in consiglio comunale; persino il prete dal pulpito ti ha dedicato un pensiero prelettorale. Peccato non sia epoca di Inquisizione.

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