mercoledì 13 marzo 2013

Panta rei

Il telefono squilla e nel giro di 30 minuti mi fornisce una motivazione più che valida per scardinarmi da casa, dove le tapparelle disegnano bolle chiare e ordinate sul pavimento e sui mobili.
Mi ritrovo a camminare sul Naviglio, e a parlare con persone che desiderano ascoltarmi.
E lo faccio, racconto loro una moltitudine di cose così come sgorgano dalla mia mente. Una corrente di pensieri che stride enormemente con la secca totale del canale, a Boffalora. Una secca che scopre un letto pieno di sassi e fango secco, che sa di cozze e che sembra davvero molto innaturale.
Il sole è caldo, finalmente: la primavera fa i suoi primi passi, quelli timidi e pieni di dietrofront tipici del mese pazzerello. Il sole è caldo, è domenica e io parlo. Mi chiedo se questo fluire incessante di parole sia utile, sia richiesto, se non stia annoiando i miei ascoltatori. Ma loro ascoltano e chiedono, e incoraggiano i momentanei incagli. Camminiamo così, in formazione disordinata e sempre mutevole, per ascoltarci meglio gli uni con gli altri e arriviamo sotto i ponti dell'autostrada e della ferrovia, verde e blu. E proprio appena prima una pozza ha resistito, in mezzo a tutto quell'asciutto. Una lacrima in un letto vuoto, piena di alghe. Dentro la pozza quattro bambini coi pantaloni arrotolati fino alle cosce. Uno di loro è senza stivaloni, gli altri tre, invece, li hanno, stivali da pescatore adatti alla loro misura ridotta. Guardano attraverso l'acqua scura e verde di piante acquatiche, con bastoni e retine in mano. E si confrontano. Sulla riva, molte persone camminano come noi, o corrono, o pedalano. Tutti guardano i quattro bambini, così diversi tra loro, così concentrati su ciò che accade al di sotto del velo acquatico. Così impegnati a darsi solo istruzioni. A loro non serve un fiume di parole.
Anni fa la gente mangiava all'arrivo della secca del Naviglio, mi dice martedì papà. Faccio una smorfia di orrore, lui mi vede e precede le mie obiezioni. L'acqua era pulita, e c'erano molti più pesci, mi dice. Io richiudo la bocca e penso ai quattro ragazzini. Si sono persi molto, chissà che festa, se fosse ancora così. Ma si divertono comunque, ancora, con azioni ripetute prima di loro chissà quante volte, da chissà quanto tempo. Il segreto è sempre quello: lo stupore. Per una domenica di sole, per una secca osservata da un argine affollato, per un divertimento che sa di antico.

1 commento:

Stefano Antonioni ha detto...

Ciao Giornalaia, sono il tuo "incubo"... :) :) :)... Breve ma coinvolgente il tuo racconto. Mi ricordava per certi versi le pagine di Italo Calvino, quando scriveva di Marcovaldo... Brava! Grazie Sabrina!