martedì 30 settembre 2025

Sì, San Siro merita un nuovo stadio


Ed eccomi qui, signor giudice, ad esprimere un parere non richiesto. 

Questa volta, però, si tratta di un pensiero legittimo. Una parte della mia vita che ritengo decisamente importante è legata a questo luogo che amo e di cui sento la mancanza, dopo vent'anni di frequentazione, e che mi suscita un sentimento potente. Un sentimento che ha una data precisa, un colpo di fulmine arrampicato su una delle torri a lato del terzo anello blu: 4 giugno 1995, Inter Padova, 2 a 1 e ultima partita di Ruben Sosa. Ravvivato in piedi sui seggiolini della Curva davanti ai due gol di Recoba al suo esordio in Inter Brescia, 31 agosto 1997 e iniziato, come una lunga storia d'amore, con il Campionato 99/00 e poi con nove abbonamenti di fila, da Ronaldo-Baggio-Zamorano-Recoba-Vieri in poi, dal terzo rosso al secondo arancio. E poi altri nove anni in servizio, in sala Executive e in garage, agli skybox della tribuna rossa e al primo arancio. E poi come osservatrice e al lavoro con gli steward, entrando in tutte le stanza di questo colosso, sale stampa, gos, scale interne, consorzio Inter Milan, sede dell'Inter, spogliatoi, mix zone. Lontanto dai match, con i pitch parterre in costruzione, le lampade per il prato, l'allestimento per i concerti. Non credo ci sia un angolo che non abbia visto, infermeria compresa. Dei concerti ho già perso il conto. 

Sì, posso dirlo: scrivo di un luogo che conosco e amo molto. A cui sono pronta a dire addio. Perchè questo stadio è come una casa, un bene immobile: è quello che vi succede all'interno che rende la vita vissuta là indimenticabile, non il contrario. Sono le emozioni, le azioni, le gioie e le disperazioni, i climi che mutano da un minuto all'altro, la rabbia e la felicità, il canto e la folla, il freddo, la pioggia, il caldo torrido e il sole accecante, la calca e il vuoto delle porte chiuse che fanno di San Siro il luogo che è. Il pubblico e i giocatori, i colori e gli striscioni, i cori e le persone. Il rito, le canzoni, lo speaker, la società, i fotografi, gli steward. E novanta minuti di imprevedibilità, le birre vendute sugli spalti, le bandiere enormi e piccolissime, i sorrisi e le lacrime, i veterani e gli occasionali, i bambini entusiasti e addormentati,  le mogli annoiate e le generazioni di tifose che arrivano insieme, gli sguardi d'intesa tra sconosciuti e l'annullamento totale di ogni differenza sociale. E' l'adesione e la contestazione, è la fila all'ingresso e il deflusso pieno di adrenalina che, piano piano, cala sulle gambe. Sono nervi che si tendono, tensione che va scogliendosit, lacrimogeni, fumogeni, bontà e cattiveria. Sono i geloni ai piedi, che tornano a sentire di nuovo tepore solo dopo aver raggiunto la macchina in parcheggi lontani. Quei silenzi improvvisi che portano fino agli spalti lo schiocco secco del pallone che impatta sul palo, il fischio dell'allenatore, l'imprecazione da fallo. 

Il sapore del panino con la salamella, la cipolla e i peperoni sarà sempre quello, anche dopo. 

Perchè ci vuole un dopo. Le stanze del Comune che inghiottiscono decine di imbucati, scale strette e maleodoranti, bagni inadeguati, vie di fuga lente, ascensori microscopici e lentissimi e centinaia di metri quadri di cemento nudo mal rasato. Nessun adeguamento, dalla finale di Champions in poi, non può nascondere un pachiderma stanco. Nessuna nuova sala rivestita di pannelli semovibili. Gli spazi restano inadeguati, anche mascherati. 

Il Meazza è uno stato dell'anima. Lo sapeva benissimo anche colui che gli ha dato il nome, primo divo di questo sport che con il ciclismo ebbe una funzione sociale cruciale in Italia. Lui, talento straordinario, grande giocatore d'azzardo e pieno di donne, sapeva che dal letto al rettangolo di gioco era il sentimento a muoverlo.

San Siro è ben più di uno stadio. E' un anelito che non morirà mai. La caduta del palazzetto lo ha già mostrato: ci sono dolori lancinanti che si superano, perchè quello che resta è decisamente più grande e più eterno di un contenitore di emozioni. Invertiamo la sineddoche: torniamo al tutto e non alla parte, al contenuto e non al contenitore, all'essenza e non alla materia. 
Conserverò con estrema gioia tutti i ricordi che mi legano a quel luogo, e con altrettanta gioia attenderò quelli che verranno.


Ho finito, signor giudice. Tutto quello che desidero sono altri vent'anni di partite dal vivo.

93 anni e un Patrimonio d'amore

Ho scritto questo post pochi mesi fa. 
Lo pubblico ora, dopo il suo compleanno, il 27 Settembre. 

La prima domenica di questo Agosto, il numero 92 della sua vita, la nonna Rosa è uscita per andare prima a messa, e poi al mercato. 
La piega fatta il giorno prima, come tutti i sabato, la gonna lunga appena sotto il ginocchio, la borsetta al braccio, lei ha prima pregato per tutti noi e poi è andata a comprare la padella. 
La padella. Potremmo usare la maiuscola anche in mezzo alla frase, perchè, ogni anno, è un rito che si ripete. In vista dell'arrivo di figliolanza, cognatume e nipotame, l'invincibile strumento che tutto può friggere sostituisce quello ormai esausto dell'anno precedente. 

Non c'è mai stato nessuno, nella mia vita, che friggesse in padella come fa lei, e sempre godendo di ottima salute. Che siano melanzane, cotolette, frittelle, frittate, panzerotti, zeppole...poco importa. La bottiglia dell'olio è sempre pronta, e la padella (ora) nuova di zecca altrettanto. 

Questa, dunque, è una storia d'amore. Non solo per tutte le persone che, in Agosto, transitano da quell'appartamento in contrada Giardinello di un paese calabro (e prima, nella contrada Petto, forse ancora più numerose e rumorose, vista la quantità impressionante di cugini). Ma anche per se stessa. Perchè, quando finisce il caos delle vacanze, con stanze scambiate, letti aggiunti, sveglie e tavoli pieghevoli, sedie recuperate e tutte spaiate, resta lei, da sola. E lei, sola, cucina e apparecchia per sè sempre, senza saltare un pasto. E anche sola, la padella resta lo strumento indispensabile a tutto il desinare. 

E che desinare. Alcuni piatti della nostra iron grandma restano inarrivabili, nonostante la grande tradizione tramandata ai figli. Certi cavalli di battaglia possiedono tal razza superione che non è nemmeno giustificabile dal clima, dall'acqua, dai prodotti: la nonna Rosa ha dimostrato più e più volte che, anche nelle sue trasferte al Nord, le sue capacità restano immutabilmente irraggiungibili. 
Del resto, una campionessa olimpica lo è ovunque. 

A noi, dunque, non resta che partire e confluire lì, fili differenti e asincroni di uno stesso tessuto la cui matrice è là, con un nome così delicato, una volontà di ferro e una padella in mano. 

martedì 9 settembre 2025

Ri-definirsi. Alla ricerca di una bellezza intriseca.

C'è una bella differenza tra il sapere cosa fare per stare meglio e farlo davvero. 
Magari sono mesi, anni, che ti ripeti costantemente che le cose devono cambiare. Lo fai appena sveglia al mattino, cercando di inquadrarti nella cornice di uno specchio che riflette qualcosa che non ti piace. Oppure con la radio in sottofondo e il caffè sotto il naso, o guidando con la mano sulla leva del freno a mano, o svegliandoti di notte. 
No, ti dici, così non va: è ora di cambiare. Solo che quel cambiamento non arriva...finchè...
Finchè un giorno, improvvisamente, si rompe qualcosa. 

Quello che hai pensato, hai espresso in qualche confidenza, ma soprattutto ha lavorato inconsciamente rompe la superficie ed emerge. Più di tutto, si libera dalle opinioni degli altri, di quello che ti hanno consigliato o raccomandato. 
Settembre è questo: una rottura. Non di balle e nemmeno dolorosa. 
E' come prendere atto, improvvisamente, di un cambiamento che ha causato molto dolore prima, in passato, e anche a lungo. E' come capire, improvvisamente, perchè quel dolore è arrivato, a cosa servisse davvero (non tutto, eh: certi colloqui agghiaccianti, ad esempio, restano ancora senza senso). 

Ci sono stati momenti in cui la distruzione delle certezze ha lasciato delle grandi macerie. E che, in mezzo alla rovina del castello, mi sentissi io in aria, senza sapere come fare e davvero per molto, molto tempo, avviluppandomi in vittimismo e autocommiserazione, in una non-reazione.
Oggi, invece, è tutto pulito, sgombro, libero. Uno spazio nuovo, recuperato nelle autentiche fondamenta, in cui ricomincio a vedere me. 

C'è solo un aspetto che sento di dover ricalibrare: riguarda la bellezza. No, non quella che ci si aspetta, ma più profondamente quella che mi caratterizza. Facendo spazio, liberando tutto, mi sono resa conto di non aver più il paramentro del giudizio esterno. E se in passato, ad esempio, avevo lasciato che un narcisista minasse subdolamente tutto il mio territorio, oggi è il contrario: la ricerca riparte da quella che sono davvero, bonificata. 

Stranamente, e nel modo più contraddittorio possibile, in questo caso la superficie si è rotta perchè è arrivata da una dichiarazione inaspettata: l'esternazione della (mia) bellezza superlativa da parte di chi non l'aveva mai espressa davvero. Cadendo da quel pero ben radicato, la reazione è stata quella di aprire un mini sondaggio, per poi chiuderlo subito. No. Non è la statistica la materia che mi interessa, io che dai numeri ho preso sempre e solo schiaffi. E no. Nessuna doxa: di fatto è proprio l'opinione altrui che non mi serve. Più. 

La donna che vedo allo specchio, in qualsiasi condizione, mi piace. Trovo che mi somigli abbastanza. Ma quell'abbastanza non basta più: è ora di mirare alla totalità. "Enough" mi è servito per arrivare fin qui, alla sommità di questa collina. Me lo sono pure tatuato, in un momento in cui anche pensare di essere abbastanza sembrava inarrivabile. Anche quando il mio nome, Sabrina, sembrava quello di un'altra persona, persa per strada. 

Non resta che trasformare questa ri-definizione in movimento.
Senza più fermate, si va dritti a Casa.