giovedì 9 ottobre 2025

Anche la rabbia serve

Incredibile. 
Decine e decine di post in cui butto fuori tutta la mia rabbia, per arrivare qui, ad oggi. 
A martedì, anzi, quando, di ritorno dal lavoro, mi sono infilata le scarpe da tennis e sono uscita a camminare furiosamente per un'ora, al passo di carica (ancora più, se possibile, di quello che ho solitamente) intorno a Corbetta, per parchi e canali e vie acciottolate, talmente elettrica da indurre le auto a fermarsi senza neanche cenni, quando ho attraversato strade di scorrimento. Sneakers fucsia, giacca viola e pugni chiusi, con tanta aria da buttare fuori. Ma un'ora è bastata, anche troppa, per qualcosa di estremanete immeritevole anche solo di un sentimento. 

In altre fasi della mia vita...altro che qualche chilometro in fretta e furia. Su questo blog, ad esempio, ci sono fiumi di parole digitate con una frustrazione indicibile, cuore esposto e pianto libero. Giorni, settimane, mesi. Anni. Di cose andate per il verso sbagliato. Di versi sbagliati. 

Grazie a queste tracce ricordo tutto con grande lucidità, ma se mi guardo indietro mi sorprendo della distanza che ho messo tra quella rabbia e questa gioia. Nonostante tutto, con le difficoltà di sempre, i soldi che mai bastano, i casi umani e un'infinità di incastri da riaggiustare, sono...contenta. 
Quella rabbia così grande mi ha causato due effetti collaterali di grandissimo peso: ho sofferto solo io, molto, nell'anima e nel corpo; e ho lasciato che questo sentimento non mi permettesse di darmi un valore. 

Ma oggi aggiungo una riflessione in più. Per arrivare qui, da sola, allo sommità di questa piccola collina che mi è sempre sembrata inscalabile, c'è voluto anche questo. Ho sempre dato un'accezione fortemente negativa alla rabbia che ho provato, e potrei aver sbagliato. Esprimendola, tutta quanta, l'ho trasformata in qualcosa di positivo. 

Nei momenti peggiori ho avuto il timore di trasformarmi. Di perdere la mia essenza. 
Oggi so che non è possibile. 
Sono così. Grazie (anche) alla rabbia. 


giovedì 2 ottobre 2025

Cosa significa imparare davvero

Me li ricordo benissimo, i miei fallimenti. 

Già dal Liceo mi rimprovero di non aver avuto la forza di emergere in una classe di cui è rimasto davvero poco. Ne ero consapevole, ma fino dal primo momento mi sono rifugiata nel rumore indistinto di fondo di quella classe di trentadue persone per non uscirne più, davvero. Il classico elemento d'arredo, come un banco, una sedia. Pur partecipando alle gite extra o agli eventi scolastici come tutti, mi sono sempre tenuta nel mucchio, se possibile due passi indietro. Il risultato buono, ma non memorabile, è stato il giusto epilogo di quel lustro, così diverso da come avevo affrontato il ciclo di studi precendenti. 
Ho iniziato l'università con lo stesso motto, "non osare", e quelli che mi hanno salvato sono stati gli amici che lì ho avuto la fortuna di incrociare e che ancora oggi ci sono, anche nel mio primo anno di quasi non-frequentazione, per i mille lavori che avevo già iniziato a inanellare. Il mio best Casper Award lo ricordo con un sorriso tenero. Il fallimento di quel primo anno si riduce a un unico, solo grande ostacolo: l'esame di Italiano 1, ripetuto tre volte. Una di queste, il giorno del mio 21esimo compleanno in cui ho pensato che la mia vita fosse finita. Conservo le foto di me, annegata nelle lacrime, davanti alla torta, con Martina, la mia piccola cugina, vicina vicina a me. Occhi da visitor, voglia di festeggiare prossima allo zero assoluto.
 
Poi sono emersa, come chi ha nuotato in apnea per molto tempo, e ho riempito i polmoni di aria. La laurea ha sancito una nuova era e da lì ho capito di essere solo all'inizio, con la lista degli errori da commettere. Solo all'inzio di un percorso che non vede fine. Ho lasciato i rimpianti alla liceale, e ho iniziato a sbagliare con allegria, ripetutamente. Casomai ci sono stati pianti, senza prefissi.

Oggi, nel mezzo di questa ri-definizione, capisco anche quanta vita ci ho messo dentro. Negli arresti, nelle pause, nei sonni, nei ritiri. Tutti momenti che hanno contribuito a farmi ripartire. Mi dicono che sono piena di entusiasmo: non so, davvero, se è così, o se è incoscienza, ignoranza, sintomo di poca intelligenza. Ma oggi, forte e carica di tutti i miei fallimenti, grazie a tutte le mie cadute così rovinose, a tratti, così brutte, imperfette, poco recuperabili, ogni volta che si ricomincia, superata la fatica, mi colpisce sempre la bellezza delle prime volte. 

Un esame non superato può sembrare la fine del mondo. 
Invece, con il tempo, si scopre un'altra verità: è la nuova via da cui ripartire. 
Se perdo, imparo sempre. 

La parte più difficile, però, è un'altra. Anche nel momento peggiore, la vera sfida è non chiudere il mondo fuori. Sono le persone che abbiamo accanto a farci capire che si tratta solo di incidenti di percorso. E' il confronto che ridimensiona quel nero. Sono le altre voci che ci guidano a riaccendere la luce. E quelle che contano...restano. Per insegnarti, tra le altre cose, che non ci sono gare. Non c'è nessuno da battere intorno, ed in particolare non abbiamo da batterci con noi stessi. 

mercoledì 1 ottobre 2025

Cosa ci insegna la morte

Stasera ho stappato una bottiglia di vino rosso. 
Ho preso un calice, ampio, di quelli riposti per le occasioni. E ho versato tre quarti di bicchiere. 

Oggi è una giornata di morte, lo scrivo senza giri di parole. Già dal primo mattino al lavoro è giunta la notizia di un incidente stradale, oltreoceano, che ha strappato alla vita la giovane figlia di un uomo che ha lavorato in azienda sempre, da poco tempo in pensione. E' una strana sensazione assistere ad una vicinanza corale che non è mia, perchè sono arrivata dopo. E' come camminare in punta di piedi tra i ricordi e i racconti e una commozione tangibile, duratura. Capire come stare vicina e contemporaneamente ai margini di un dolore autentico dei colleghi. E' stata una grande lezione di ridimensionamento, improvviso, di tutti i problemi che lasciamo giganteggiare ogni giorno, convinti che lo siano davvero, e non lo sono affatto.

E poi sono arrivata a casa e, dal parcheggio interno, attraversando il giardino antistante al mio palazzo, mi sono accorta della coccarda funebre appesa al cancelletto, verso l'esterno. Coi passi pesanti, nelle scarpe che mi hanno fatto male tutto il giorno, sono uscita verso la strada per scoprire il nome.
Sandro. 
In quindici anni qui, ho incrociato quest'uomo coi baffi innumerevoli volte. Soprattutto alle 4 di mattina, quando attraversavo longitunalmente Milano per il turno del mattino alla radio. Ci trovavamo al buio, al freddo, grattando il gelo dal vetro della mia C3 e della sua Audi, a scambiare qualche parola, subito rappresa in una piccola nuvoletta in almeno tre stagioni all'anno. Sempre cortese, sempre spiritoso. Vederlo, dava alla messa in moto e al mio tragitto di 35 chilometri uno sprint in più. Ogni singola volta. 
Dopo, sono arrivati altri lavori (miei) e la pensione (sua). E altre auto mie, perchè la C3 mi ha abbandonato ed è stata sostituita, per anni, da una serie più o meno longeva di auto aziendali dalle forme più svariate, fino alla Golf. La sua Audi coupè, invece, immutata, splendida, dello stesso argento lucente, invecchiava benissimo. Parlavamo di questo avvicendamento, scherzandoci su, sempre con lo stesso garbo, lo stesso spirito cortese. 

Poi l'ho visto deperire. La vita ci cambia in un modo che difficilmente possiamo prevedere. Ne parlavo ieri con Laura, citando Manzoni: la falce si abbatte su steli robusti e giovani germogli, senza guardare in faccia nessuno. Niente, però, che preannunciasse questo epilogo. 
Aveva rotto il femore. Hanno sconsigliato l'operazione, per le condizioni generali, ma quell'osso lungo non aveva in autonomia fatto progressi. E lui, Sandro, con quei baffi così belli, come quelli di papà da giovane, ha incoraggiato i medici ad operarlo, pur conoscendo le scarse probabilità. 

Sono andata da suo figlio Paolo, stasera. Lui, la moglie, la bimba e la madre mi hanno pure ringraziato ma, ancora una volta, la lezione l'ho imparata io.
Non vendete l'Audi, ho detto. 
Ho tenuto le lacrime per dopo, fuori dalla loro porta, e poi ho stappato la mia bottiglia. 

Domattina metterò quel profumo che uso solo qualche volta. 

martedì 30 settembre 2025

Sì, San Siro merita un nuovo stadio


Ed eccomi qui, signor giudice, ad esprimere un parere non richiesto. 

Questa volta, però, si tratta di un pensiero legittimo. Una parte della mia vita che ritengo decisamente importante è legata a questo luogo che amo e di cui sento la mancanza, dopo vent'anni di frequentazione, e che mi suscita un sentimento potente. Un sentimento che ha una data precisa, un colpo di fulmine arrampicato su una delle torri a lato del terzo anello blu: 4 giugno 1995, Inter Padova, 2 a 1 e ultima partita di Ruben Sosa. Ravvivato in piedi sui seggiolini della Curva davanti ai due gol di Recoba al suo esordio in Inter Brescia, 31 agosto 1997 e iniziato, come una lunga storia d'amore, con il Campionato 99/00 e poi con nove abbonamenti di fila, da Ronaldo-Baggio-Zamorano-Recoba-Vieri in poi, dal terzo rosso al secondo arancio. E poi altri nove anni in servizio, in sala Executive e in garage, agli skybox della tribuna rossa e al primo arancio. E poi come osservatrice e al lavoro con gli steward, entrando in tutte le stanza di questo colosso, sale stampa, gos, scale interne, consorzio Inter Milan, sede dell'Inter, spogliatoi, mix zone. Lontanto dai match, con i pitch parterre in costruzione, le lampade per il prato, l'allestimento per i concerti. Non credo ci sia un angolo che non abbia visto, infermeria compresa. Dei concerti ho già perso il conto. 

Sì, posso dirlo: scrivo di un luogo che conosco e amo molto. A cui sono pronta a dire addio. Perchè questo stadio è come una casa, un bene immobile: è quello che vi succede all'interno che rende la vita vissuta là indimenticabile, non il contrario. Sono le emozioni, le azioni, le gioie e le disperazioni, i climi che mutano da un minuto all'altro, la rabbia e la felicità, il canto e la folla, il freddo, la pioggia, il caldo torrido e il sole accecante, la calca e il vuoto delle porte chiuse che fanno di San Siro il luogo che è. Il pubblico e i giocatori, i colori e gli striscioni, i cori e le persone. Il rito, le canzoni, lo speaker, la società, i fotografi, gli steward. E novanta minuti di imprevedibilità, le birre vendute sugli spalti, le bandiere enormi e piccolissime, i sorrisi e le lacrime, i veterani e gli occasionali, i bambini entusiasti e addormentati,  le mogli annoiate e le generazioni di tifose che arrivano insieme, gli sguardi d'intesa tra sconosciuti e l'annullamento totale di ogni differenza sociale. E' l'adesione e la contestazione, è la fila all'ingresso e il deflusso pieno di adrenalina che, piano piano, cala sulle gambe. Sono nervi che si tendono, tensione che va scogliendosit, lacrimogeni, fumogeni, bontà e cattiveria. Sono i geloni ai piedi, che tornano a sentire di nuovo tepore solo dopo aver raggiunto la macchina in parcheggi lontani. Quei silenzi improvvisi che portano fino agli spalti lo schiocco secco del pallone che impatta sul palo, il fischio dell'allenatore, l'imprecazione da fallo. 

Il sapore del panino con la salamella, la cipolla e i peperoni sarà sempre quello, anche dopo. 

Perchè ci vuole un dopo. Le stanze del Comune che inghiottiscono decine di imbucati, scale strette e maleodoranti, bagni inadeguati, vie di fuga lente, ascensori microscopici e lentissimi e centinaia di metri quadri di cemento nudo mal rasato. Nessun adeguamento, dalla finale di Champions in poi, non può nascondere un pachiderma stanco. Nessuna nuova sala rivestita di pannelli semovibili. Gli spazi restano inadeguati, anche mascherati. 

Il Meazza è uno stato dell'anima. Lo sapeva benissimo anche colui che gli ha dato il nome, primo divo di questo sport che con il ciclismo ebbe una funzione sociale cruciale in Italia. Lui, talento straordinario, grande giocatore d'azzardo e pieno di donne, sapeva che dal letto al rettangolo di gioco era il sentimento a muoverlo.

San Siro è ben più di uno stadio. E' un anelito che non morirà mai. La caduta del palazzetto lo ha già mostrato: ci sono dolori lancinanti che si superano, perchè quello che resta è decisamente più grande e più eterno di un contenitore di emozioni. Invertiamo la sineddoche: torniamo al tutto e non alla parte, al contenuto e non al contenitore, all'essenza e non alla materia. 
Conserverò con estrema gioia tutti i ricordi che mi legano a quel luogo, e con altrettanta gioia attenderò quelli che verranno.


Ho finito, signor giudice. Tutto quello che desidero sono altri vent'anni di partite dal vivo.

93 anni e un Patrimonio d'amore

Ho scritto questo post pochi mesi fa. 
Lo pubblico ora, dopo il suo compleanno, il 27 Settembre. 

La prima domenica di questo Agosto, il numero 92 della sua vita, la nonna Rosa è uscita per andare prima a messa, e poi al mercato. 
La piega fatta il giorno prima, come tutti i sabato, la gonna lunga appena sotto il ginocchio, la borsetta al braccio, lei ha prima pregato per tutti noi e poi è andata a comprare la padella. 
La padella. Potremmo usare la maiuscola anche in mezzo alla frase, perchè, ogni anno, è un rito che si ripete. In vista dell'arrivo di figliolanza, cognatume e nipotame, l'invincibile strumento che tutto può friggere sostituisce quello ormai esausto dell'anno precedente. 

Non c'è mai stato nessuno, nella mia vita, che friggesse in padella come fa lei, e sempre godendo di ottima salute. Che siano melanzane, cotolette, frittelle, frittate, panzerotti, zeppole...poco importa. La bottiglia dell'olio è sempre pronta, e la padella (ora) nuova di zecca altrettanto. 

Questa, dunque, è una storia d'amore. Non solo per tutte le persone che, in Agosto, transitano da quell'appartamento in contrada Giardinello di un paese calabro (e prima, nella contrada Petto, forse ancora più numerose e rumorose, vista la quantità impressionante di cugini). Ma anche per se stessa. Perchè, quando finisce il caos delle vacanze, con stanze scambiate, letti aggiunti, sveglie e tavoli pieghevoli, sedie recuperate e tutte spaiate, resta lei, da sola. E lei, sola, cucina e apparecchia per sè sempre, senza saltare un pasto. E anche sola, la padella resta lo strumento indispensabile a tutto il desinare. 

E che desinare. Alcuni piatti della nostra iron grandma restano inarrivabili, nonostante la grande tradizione tramandata ai figli. Certi cavalli di battaglia possiedono tal razza superione che non è nemmeno giustificabile dal clima, dall'acqua, dai prodotti: la nonna Rosa ha dimostrato più e più volte che, anche nelle sue trasferte al Nord, le sue capacità restano immutabilmente irraggiungibili. 
Del resto, una campionessa olimpica lo è ovunque. 

A noi, dunque, non resta che partire e confluire lì, fili differenti e asincroni di uno stesso tessuto la cui matrice è là, con un nome così delicato, una volontà di ferro e una padella in mano. 

martedì 9 settembre 2025

Ri-definirsi. Alla ricerca di una bellezza intriseca.

C'è una bella differenza tra il sapere cosa fare per stare meglio e farlo davvero. 
Magari sono mesi, anni, che ti ripeti costantemente che le cose devono cambiare. Lo fai appena sveglia al mattino, cercando di inquadrarti nella cornice di uno specchio che riflette qualcosa che non ti piace. Oppure con la radio in sottofondo e il caffè sotto il naso, o guidando con la mano sulla leva del freno a mano, o svegliandoti di notte. 
No, ti dici, così non va: è ora di cambiare. Solo che quel cambiamento non arriva...finchè...
Finchè un giorno, improvvisamente, si rompe qualcosa. 

Quello che hai pensato, hai espresso in qualche confidenza, ma soprattutto ha lavorato inconsciamente rompe la superficie ed emerge. Più di tutto, si libera dalle opinioni degli altri, di quello che ti hanno consigliato o raccomandato. 
Settembre è questo: una rottura. Non di balle e nemmeno dolorosa. 
E' come prendere atto, improvvisamente, di un cambiamento che ha causato molto dolore prima, in passato, e anche a lungo. E' come capire, improvvisamente, perchè quel dolore è arrivato, a cosa servisse davvero (non tutto, eh: certi colloqui agghiaccianti, ad esempio, restano ancora senza senso). 

Ci sono stati momenti in cui la distruzione delle certezze ha lasciato delle grandi macerie. E che, in mezzo alla rovina del castello, mi sentissi io in aria, senza sapere come fare e davvero per molto, molto tempo, avviluppandomi in vittimismo e autocommiserazione, in una non-reazione.
Oggi, invece, è tutto pulito, sgombro, libero. Uno spazio nuovo, recuperato nelle autentiche fondamenta, in cui ricomincio a vedere me. 

C'è solo un aspetto che sento di dover ricalibrare: riguarda la bellezza. No, non quella che ci si aspetta, ma più profondamente quella che mi caratterizza. Facendo spazio, liberando tutto, mi sono resa conto di non aver più il paramentro del giudizio esterno. E se in passato, ad esempio, avevo lasciato che un narcisista minasse subdolamente tutto il mio territorio, oggi è il contrario: la ricerca riparte da quella che sono davvero, bonificata. 

Stranamente, e nel modo più contraddittorio possibile, in questo caso la superficie si è rotta perchè è arrivata da una dichiarazione inaspettata: l'esternazione della (mia) bellezza superlativa da parte di chi non l'aveva mai espressa davvero. Cadendo da quel pero ben radicato, la reazione è stata quella di aprire un mini sondaggio, per poi chiuderlo subito. No. Non è la statistica la materia che mi interessa, io che dai numeri ho preso sempre e solo schiaffi. E no. Nessuna doxa: di fatto è proprio l'opinione altrui che non mi serve. Più. 

La donna che vedo allo specchio, in qualsiasi condizione, mi piace. Trovo che mi somigli abbastanza. Ma quell'abbastanza non basta più: è ora di mirare alla totalità. "Enough" mi è servito per arrivare fin qui, alla sommità di questa collina. Me lo sono pure tatuato, in un momento in cui anche pensare di essere abbastanza sembrava inarrivabile. Anche quando il mio nome, Sabrina, sembrava quello di un'altra persona, persa per strada. 

Non resta che trasformare questa ri-definizione in movimento.
Senza più fermate, si va dritti a Casa.

martedì 5 agosto 2025

Adriana e l'Inter


Ci sono momenti in cui l'urgenza di scrivere si manifesta in molti modi. Prima di dormire, compaiono nella mia mente testi e frasi esattamente come in questo foglio appunti, si compongono velocemente, di getto, in pochi istanti, e li lascio fluire così, senza memorizzarli in altro modo. Altre volte sono pensieri fulminanti mentre sto facendo altro. Ultimamente, lascio che i pensieri si scrivano tra i capelli al vento nei miei giri in bici, tra campi a granturco e canali. 

E poi ci sono gli anniversari, non appuntati, che tornano. 


Sono giorni che penso ad Adriana e, andando a cercare nel mio blog, ho trovato solo una piccola parte della sua storia bellissima, e quella piccola parte riguarda solo il giorno in cui è morta, nella serenità di una mattina sonnolenta. 

Dieci anni fa, il 16 maggio del 2015, incontrai allo stadio, nel mio anno di consulenza tra una carriera radiofonica e un'altra, una donna straordinaria. Lei avrebbe compiuto cento anni il 24 maggio e da oltre 60 anni frequentava San Siro, per la sua Inter. Il figlio Roberto al suo fianco, in auto da bambino, poi con il tram e ora con la metro lilla. La loro storia mi colpì per due motivi: era fatta di una passione gioiosa, ma piana, di riti che si costruiscono nel tempo, qualunque cosa accada, in qualunque condizione atmosferica. E avevo di fronte due persone che dimostravano almeno 25 anni in meno: l'Inter allena il cuore, è un dato di fatto. La prima foto è di quel giorno. 

Ci ho pensato a lungo e poi ho fatto arrivare la storia prima a una tv locale e poi alla società, per la quale avevo iniziato questa consulenza. 15 giorni dopo, il 31 maggio, Adriana è stata invitata a ritirare la sua maglia numero 100 in campo, prima della partita. Ero con lei, Roberto e Luigi, lo steward che me l'aveva presentata e che svolgeva servizio nel suo settore. A consegnarle la maglia, Capitan Zanetti, Benny e il mio Ciccio, tra gli altri. Abbiamo fatto a braccetto mezzo giro di campo, dal suo posto alla linea immaginaria in cui si scherano i giocatori e lei ha raccolto gli applausi con una felicità impossibile da dimenticare. 

E' stato un momento di grande bellezza, di quelli che travalicano le regole e restituiscono al calcio una dimensione romantica. Una dimensione sociale, quella che avevo scritto nella mia tesi. A volte, la vita restituisce momenti perfetti. Non avevo ancora finito, con lei. Ecco perchè in questi giorni è tornata così, prepotentemente, a bussare. Seppur brevemente, le dovevo un  post. O lo dovevo a me stessa e, sono sicura, è comunque la stessa cosa.